Non mettiamoci le fette di salame sugli occhi: il lessico dei nostri ragazzini è così primitivo e scarno da non reggere a volte nemmeno i paragrafi di un testo di geografia, specialmente se l’autore si lancia in un poetico “oggigiorno sarebbe arduo immaginare le caratteristiche peculiari di un territorio che nei millenni ha subito mutazioni antropiche che ne hanno alterato i connotati primitivi”. Da nonna e da giornalista, direi che magari sarebbe bene usare un linguaggio meno aulico e più comunicativo, ma forse sono di parte.
Fatto sta che la dimestichezza con il nostro bellissimo italiano sta scemando vertiginosamente, mentre il dialogare dei nostri preadolescenti consta di pochi, ripetuti, pressapochistici vocaboli e strutture sintattiche elementari, dove è “arduo”, qui davvero, rintracciare briciole di cultura comune, echi di proverbi, ombre della tradizione letteraria.
Ma nemmeno modi e tempi appropriati delle nostre versatili coniugazioni verbali.
“Se lo sapevo, non glielo dicevo”: è il massimo che otteniamo da un dodicenne. E vi sfido a spiegargli il congiuntivo e il condizionale.
Pensare che uno dei passatempi più gettonati, perfino durante la ricreazione scolastica, ai tempi delle mie elementari era il gioco dei verbi. Il gruppo doveva indovinare, mentre il prescelto – dopo accurata conta “sette quattordici ventuno ventotto questa è la storia di Paperotto…”- si ingegnava a mimare un’azione, un sentimento, un pensiero espresso, appunto, da un verbo all’infinito, di cui si dovevano offrire solo due indizi, la lettera iniziale e la desinenza finale. Ricordo che per un certo periodo andò di moda “circumnavigare”, verbo assai astruso e quindi difficilmente individuabile, anche per la complessità dei gesti che richiedeva. Ma la fantasia era inarrestabile, e si andavano a rintracciare verbi ottocenteschi – Cuore e Gianburrasca insegnavano – o magari inventati lì per lì, con evidenti echi dialettali, come “pirlare” nel senso di far girare, o “pizzare” nel senso di accendere, e via di questo passo. Una ginnastica mentale invidiabile, che arricchiva i temi e le letterine che tutti, chi più chi meno, scrivevamo: perché c’erano i nonni e gli zii lontani, ai quali fare gli auguri; l’amica del cuore delle vacanze, a cui raccontare le vicende invernali; l’amico di penna, che spesso proprio la scuola ti indicava… E magari il primo innocente morosetto che ti passava i bigliettini sullo scalone o nell’atrio, durante la confusione dell’uscita, e che esigeva una risposta senza equivoci.
Ma non era l’unico, di gioco intelligente: per le giornate di pioggia, niente di meglio che Le otto parti. Foglio di quaderno piegato in due, poi ancora in due e ancora in due, per ottenere otto colonne, che andavano intestate con Nomi, Flora, Fauna, Oggetti, Città, Fiumi, Monti, Personaggi famosi; puntando a caso la penna su una pagina di libro, si sceglieva una lettera dell’alfabeto, che diventava l’iniziale delle otto parole da trovare per ogni categoria. Il tempo scadeva quando il più veloce aveva completato le otto parti, e poi si contavano i punti, dieci per ogni vocabolo diverso, cinque per vocaboli uguali, zero se non avevi trovato niente. Se i concorrenti erano all’altezza, le “parti” potevano moltiplicarsi: con la mia più cara amica dei mesi estivi, eravamo arrivate fino a ventuno, comprendendo anche i personaggi della Disney, di cui eravamo fans assatanate.
Ho provato a proporre il gioco ai miei nipoti: in effetti si sono abbastanza divertiti, salvo rifiutare la divisione in Monti, Fiumi e Città, che hanno deciso di riunire in un’unica “parte”: “Ma dài nonna, che differenza c’è? Sono tutte robe di geografia, no?”.
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