Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo, dopo aver ricordato le enormi negatività della dittatura fascista ha aggiunto che Mussolini qualche cosa di buono l’aveva fatta; Tajani, temendo incomprensioni per questa sua affermazione, che non era in assoluto antistorica, si è affrettato a chiedere scusa per la sua valutazione.
In Italia, dove spesso non c’è verità politica al di fuori di quella del proprio partito, non sono mancate le reazioni di chi valuta negativo in toto l’operato di Mussolini ma al tempo stesso non sa spiegare l’enorme consenso del fascismo in ambito nazionale anche dopo la guerra contro l’Etiopia – dove la dittatura mostrò al mondo quanto potesse essere feroce – e sino agli inizi del conflitto mondiale.
Un consenso che probabilmente attenuò gli echi della dura repressione, che dall’inizio degli Anni 20 non conobbe mai soste contro chi si ribellava alla negazione dei diritti dei cittadini, primo dei quali era quello alla libertà nelle sue migliori espressioni democratiche.
Le polemiche suscitate dall’autorettifica di Tajani, mi hanno fatto ritornare ai tempi dei miei studi universitari di giurisprudenza, interrotti per l’avventura giornalistica. Un ritorno il mio alla nascita, era il 1930, del codice Rocco (prima la procedura penale, in seguito il diritto penale) che dopo quasi 90 anni emerge ancora. Né le necessità democratiche, né le urgenze dell’immediato dopoguerra hanno infatti stravolto l’impianto di una serie di norme che erano frutto di una cultura giuridica che guardava a preziose esperienze storiche e si riferiva, nella elaborazione delle norme, a una visione laica dell’equità nel rapporto legge-cittadino, visione che forse oggi a volte potremmo considerare addirittura di tendenza liberale.
Rocco era un preparato ministro della giustizia, i suoi collaboratori potevano essere considerati l’élite degli studi giuridici del tempo, una sorta di eredi in qualche misura di una lunghissima tradizione iniziatasi ai tempi di Roma antica.
Il primo responsabile del ministero di grazia e giustizia della nostra repubblica fu Palmiro Togliatti, grande leader comunista, che non ebbe tribolazioni con il codice Rocco, sottoposto anche in seguito a modifiche e aggiornamenti. Iniziative doverose che mai ne snaturarono l’impianto e direi anche la civiltà.
Un inciso: è giusto ricordare che Togliatti ebbe grane, grosse e a sinistra, con la sua amnistia del 1946 per i reati politici e comuni, che cancellava situazioni e comportamenti illegali. Di amnistie di questo tipo, cioè pacificatorie in un paese sconvolto anche dalla guerra civile, ce ne furono altre, l’ultima negli Anni 60.
Il codice Rocco, oggi noto come Vassalli, ha subito ritocchi e mutamenti oltre che buone dosi pure di critiche, ma essendo opera di giuristi non dovrebbe essere catalogato come espressione del fascismo. Tra i tecnici del diritto c’è anche chi sostiene che nemmeno lo si possa indicare tra le tante male opere della dittatura proprio per la sua specificità lontana da specificità che affiorano nelle ideologie.
Ho abusato della pazienza di cari amici avvocati che ogni giorno vivono professionalmente la realtà istituzionale del diritto. Un coro unanime: se oggi ci sono problemi seri di giustizia lo si deve spesso anche a iniziative politiche che per esempio propongono leggi e pene meglio previste e regolamentate dal vecchio codice Rocco. Che non considera dimezzamenti della pene a mariti, fidanzati o compagni che uccidono perché psicologicamente devastati dai tradimenti della “metà”. Non sono questi i segnali che ci si aspetta da una giustizia ricca di storia e di cultura.
Aldilà di problemi “tecnici” c’ è un aspetto singolare e pericoloso politicamente: in un quadro nazionale di tentativi di recupero di colonne della società quali sono le donne, certe decisioni possono essere valutate anche come segnali di regresso, di un ritorno al maschilismo in una società che cerca di progredire. E se un codice penale non viene rispettato nemmeno dopo studi e revisioni, quale futuro ci riservano le riforme e i loro autori?
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