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Noterelle

“COLTANIATI”

EMILIO CORBETTA - 15/03/2019

coltanVai nei dintorni delle Stazioni, vai nel piccolo Parco Perelli di Biumo Inferiore, vai in Piazza della Repubblica ed incontri Africani, che per te “bianco bosino” sembrano tutti uguali; non riesci a vedere bene i loro volti e sulle loro facce non riesci a interpretare la loro disperazione. Non sai “guardare” la loro angoscia e ti vien paura. Non ti accorgi che loro ne hanno molta, molta di più di te di paura.

Ti domandi: “Perché sono qui”. “Perché qui da noi?” ti ripeti ad ogni incontro. Perché sono disperati e sono a caccia di briciole di speranza, ci dicono sociologi esperti.

Nati nelle loro terre rosse, concepiti troppo spesso non dall’amore, ma dalla brutale incapacità umana di dominare il naturale istinto sessuale, sbattuti fin dai primi vagiti di fronte alla possibilità di morire, sono fuggiti dalle loro terre lussureggianti, ma che a loro danno solo malattia, fame, sofferenza e appunto altissima possibilità di morte, quindi disperazione. Son “capitati qui” a cercare momenti di vita migliore, a cercare un velo di benessere.

Adesso prendi il tuo computer e scrivici la parola “coltan”. Scopri che è l’unione di altre due parole: “colombite” e “tantalio” che indicano delle specie di sassi, di polveri preziosissime per chi fabbrica telefonini, tablet ed altre diavolerie, come armi super micidiali, cervelli artificiali per il controllo di auto, di aerei, di robot, di catene di montaggio, del computer stesso dove stai studiando. Praticamente nel tuo PC c’è dentro un frammento infinitesimale di terra africana, di “ossidi” (per dirla scientificamente) che vengono dai territori da cui son fuggiti questi senza speranza.

Questi ossidi sono estratti faticosamente a mano da tanti infelici come loro, spesso dei bambini, che scavano con lavoro stentato e rischioso in miniere incontrollate, illegali. Questo materiale va poi nelle mani di gente criminale che li commercia per denaro, e va ancora bene perché invece molto spesso, troppo spesso c’è scambio di armi. Ma le armi non danno da mangiare, come crede chi le maneggia; le armi danno morte! Come tutti sappiamo.

Coltan non vuol dire foresta vergine, non vuol dire savana sterminata, fiumi dalle rive lussureggianti di fiori stupendi, di isolotti pieni di splendidi volatili, non vuol dire brevi tramonti tropicali dorati, notti sotto cupole color indaco brillanti di stelle, brezze piene di mormorii di vita primordiale. Coltan vuol dire immensa ricchezza per pochi, miseria, dolore, morte di stenti per troppi.

Anche noi, con in mano il nostro coltan-computer utilissimo per lavorare, studiare, far cultura, non è che invece con frequenza lasciamo che ci si ritorca contro? Ci rubi tempo, denaro, ci butti addosso stupidità difficile da filtrare? Non è che anche noi si sia un po’ vittime come questi disperati? Non è che invece, senza che ce ne accorgiamo, si faccia parte anche noi degli sfruttati?

Quel “coltan” che è dentro lì, che guida e incanala benissimo gli elettroni, può purtroppo contribuire a bruciare la nostra obiettività, impedendoci di capire se quei piccoli schermi ci dicono la verità, se ci rubano la libertà di pensare e ci fan “bere” ciò che altri abilmente vogliono? Non è che si venga pesantemente imbrogliati? Che i piccoli filmati, che le immagini spesso fugaci, molto veloci, le sibilline frasi riempiano un calice zeppo di veleno?

Molti esperti e studiosi sostengono che abili strateghi stanno usando la tecnologia per avere il nostro povero “voto”, l’unica minima nostra espressione politica che vorremmo libera. Ma per mantenerla tale non è che dobbiamo scolpire un nuovo comandamento: “non bendarti il cervello col coltan” oppure “non adorare il coltan”?

 

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