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Politica

POVERTÀ

EDOARDO ZIN - 15/03/2019

reddito“Abbiamo abolito la povertà!” gridò esultante dal balcone di Palazzo Chigi il vice-presidente del Consiglio. Un applauso scrosciò dalla frotta di amici che lo aspettavano in piazza Colonna. Accanto all’avvocato del popolo, ora avevamo anche l’avvocato dei poveri!

Il Consiglio dei Ministri aveva inserito nel bilancio dello Stato le risorse per dare il reddito di cittadinanza a sette milioni (così si calcolava allora) di poveri. La misura era attesa – e giustamente! – da tante persone. Ma non c’erano le risorse e la Commissione di Bruxelles – guardiana dei Trattati – fece capire che non avrebbe permesso che si sforassero i criteri stabiliti a Maastricht. Ci fu un assiduo andirivieni tra Roma e Bruxelles e alla fine si trovò il compromesso.

Abolire la povertà. È possibile farlo per decreto? E quale povertà? Quella dell’operaio cinquantenne che rimane disoccupato e ha tre bocche da sfamare in famiglia o quella del giovane che al lavoro preferisce i “lavoretti” saltuari pagati in nero che gli permettono di guadagnare quel poco che gli serve per farsi l’ennesimo tatuaggio sul braccio e passare il venerdì sera in discoteca? Chi parla di povertà, ma non con i poveri e ai poveri, specula, fa un guadagno sicuro e immediato soprattutto se siamo vicini alle elezioni. Parlano di poveri, ma di quali poveri?

Perché le povertà sono di diverse nature: tutte devono essere combattute, ma non riusciremo mai ad annientarle. Tutti i poveri devono essere oggetto di attenzione: chi con un sussidio, chi con tanta compassione, chi con un aiuto, chi perfino con la condanna.

C’è la povertà del ricco: di colui che per tutta la vita ha ammassato proprietà di case, ville, ha il suo facoltoso conto in banca, prodotti finanziari all’estero, è potente perché è ricco, tutti vorrebbero essere come lui, ma lui è povero perché è solo: gli mancano gli affetti veri che gli provengono da chi gli vuole veramente bene. È solo: non ha amici, ma solo ammiratori che lo corteggiano. È solo: è disperato perché la sua coscienza gli rimprovera le ricchezze ottenute con la corruzione, con lo spaccio della droga, con l’evasione delle tasse e lui non assomiglia a Zaccheo del Vangelo: non dona e continua ad arraffare.

C’è la povertà di chi è vittima del ricco e in nome suo ruba, uccide, diventa vittima della droga. Per comprenderlo occorre andare oltre per trovare le ragioni esatte della sua povertà.

C’è la povertà dei pezzenti che dormono in terra, nei giardini, tra i giornali e i cartoni a cui non basta una tazza di brodo per scaldare il cuore, ma che cercano una persona che si chini su di loro per ascoltarli: non chiedono sussidi, ma la carità di un conforto.

C’è la povertà dei giovani ubriachi fradici che barcollano sotto i portici nella notte inoltrata del sabato sera, dei dementi che ti fermano per chiederti uno spicciolo ma a cui lo neghi perché temi che vada a finire in un bicchiere di vino o in uno stravizio, della donna vestita di cenci che chiede l’elemosina, ma che trovi poi all’ufficio postale a ritirare soldi. Non hanno bisogno di soldi, ma di sostegno umano.

C’è la povertà dei migranti, di coloro che sono scomodi, ingombranti, suscitano repulsione perché sono sporchi e neri. Non basta cavare di tasca l’obolo per levarseli di dosso o cavarsela girando la testa. Li dobbiamo vedere in un altro modo. Non sono forse colpevoli di tante nostre colpe o omissioni? Non sono forse il frutto del clima d’odio e di rancore che abbiamo creato attorno a loro? Non sono il risultato della paura che ieri si combatteva con i manganelli e oggi foraggia i nuovi reazionari? Hanno sì bisogno di un aiuto, ma prima ancora hanno bisogno di un sorriso, di una mano che stringa la loro, di un nostro sorriso.

E c’è l’esercito dei nuovi poveri: dei giovani che non trovano lavoro, ma non temono l’imbarazzo di improvvisarsi camerieri in un bar o lavapiatti in un ristorante in attesa di tempi migliori, del giovane che si rimette a studiare dopo un primo fallimento ed è spronato dalla sua ragazza ad andare avanti, a mettercela tutta perché lui vale, della ragazza madre che trova il calore di una famiglia, pane per sé, latte per la sua creatura e affetto in una comunità, c’è il gruppo di operai disoccupati che, dopo il fallimento della ditta in cui lavoravano, racimolano i pochi risparmi, comperano l’azienda fallita e si mettono a produrre.

A queste povertà diverse occorre rispondere in modo diverso. Alcuni hanno bisogno di pietà, altri di uno sostegno psicologico, certuni di giustizia che non è solo una parola da usare la vigilia delle elezioni, molti di maggiore solidarietà per cui chi più ha, più deve dare, tutti di lavoro che non soddisfi solo i bisogni primari, ma dia loro dignità e un senso al lavoro soprattutto oggi, in questa società che è capace, attraverso le nuove tecnologie, di contrarre e ridurre i tempi del lavoro e di escludere di conseguenza molti dal mondo del lavoro. Dare un sostegno a chi niente percepisce o a colmare il reddito, non ha successo se l’ammontare è vicino al reddito che sarebbe percepito lavorando. Questa misura scoraggia il reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro.

E occorrerà al lavoro aggiungere altre forme di sostegno: dalla scuola che deve educare integralmente la persona attraverso l’insegnamento a cui deve corrispondere un adeguato apprendimento, ricordando che l’uguaglianza sui banchi di scuola è anche il modo perché ciascuno possa misurare le proprie capacità e trovare il suo giusto posto nella società. E accanto alla scuola sarà necessario aiutare le famiglie istituendo asili nido e scuole dell’infanzia gioiose, moderne, luogo di vera, prima socializzazione, di confronto con le regole, in cui le educatrici siano le prime promotrici di una civile convivenza.

Non basta distribuire reddito se contemporaneamente non si crea un clima di unità, di fratellanza, di reciproca comprensione, di tolleranza, di solidarietà. Non basta ragionare sulle statistiche: i poveri non si contano, si aiutano! Anche i poveri hanno una coscienza e spesso sono loro che danno ai più poveri di loro il conforto di una parola buona. Essi hanno bisogno, oltre all’aiuto materiale e alla possibilità di riacquistare il lavoro perduto, che si dia loro la forza dei diritti. Primo fra tutti quello di essere riconosciuti come persone.

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