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Chiesa

IL MESTIERE DI PAPA

LUISA NEGRI - 15/03/2019

papiSono nata sotto il papato di Pio XII, Eugenio Pacelli.

È stato “il mio primo Papa”, quello di cui mi parlavano a scuola le maestre delle classi elementari. Ricordo bene quando spirò, nel ‘58, perché ne scrivemmo sul quaderno, e rammento anche di averne disegnato, in fondo al tema, il profilo adunco del viso sul letto di morte: preso da qualche foto di giornale.

Fu anche il mio primo confronto con la realtà della morte. Seguito a breve da un secondo confronto, questa volta personale e diretto, perché ad andarsene di lì a poco sarebbe stata la mia nonna.

Nel tempo ho saputo della drammaticità di quegli anni di pontificato, iniziato appena prima dell’invasione della Polonia da parte della Germania, e dei dubbi insinuati da alcuni storici sul comportamento del pontefice, ritenuto niente affatto risoluto di fronte alle stragi della seconda guerra mondiale e ai genocidi.

Per alcuni fu “il Papa del silenzio”. Per altri si trovò costretto a muoversi tra la ferocia nazifascista e la prudenza dettata dalla necessità di non inasprire ulteriormente (come accadde di fronte a certe coraggiose rimostranze di alcuni ministri della Chiesa) la già precaria situazione dei perseguitati.

Proprio di recente è stato confermato che tra un anno si potranno conoscere, grazie alla piena disponibilità degli archivi vaticani voluta da Francesco, molte più informazioni di quante ne siano state fino ad ora raccolte – e commentate dagli storici – sull’operato di Pio XII, che incrociò la propria esistenza con una tra le più drammatiche delle epoche storiche.

Potrebbero trovare ulteriore conferma dalle carte vaticane l’impegno di Pacelli nel mettere in salvo quante più vite possibile, e l’attenzione e pietà che lo spinsero a scendere tra la gente, subito dopo i tragici bombardamenti di Roma.

Di Giovanni XXIII, papa Angelo Roncalli, eletto nel ’58, avevo invece avvertito con piacere la grande simpatia per i bambini, da lui prediletti. Fin dall’annuncio al mondo dell’apertura del Concilio Vaticano II, In quella famosa sera del “discorso della luna”, il cardinal Roncalli chiedeva al mondo di portar loro la carezza del papa. E intanto benediceva la bellezza di quel cielo dove la luna risplendeva per tutti, anche gli ultimi della terra: i malati, i carcerati, i poveri che tanto gli stavano a cuore.

Volergli bene era stato facile; forse perché lui sapeva svolgere al meglio il suo mestiere.

Unico motivo di sgomento per la ragazzina che lo osservava curiosa: quella portantina -la sedia gestatoria- che innalzava la sua abbondante persona verso il cielo, e sopra la gente, sorretta dai valletti di turno.

A togliere l’usanza sarebbe stato Paolo VI, Giovanni Battista Montini (1897-1978) un altro papa, come Pacelli -del quale era stato il braccio destro- di ragguardevoli natali. Pareva a molti distante e mistico, ma fu lui a scongiurare nel 1978 le Brigate Rosse di concedere la grazia al politico democristiano Aldo Moro: chiedeva umilmente, in ginocchio, che fosse restituito alla sua famiglia.

Non venne ascoltato e a me parve che avesse patito quella sconfitta fino alla morte, avvenuta di lì a pochi mesi, il 6 agosto.

Non ero più una bambina ormai e seguendo la vita del nuovo papa capivo che stavamo di nuovo partecipando ad anni difficili. Il suo segretario, il varesino monsignor Pasquale Macchi, lo aveva salvato a Manila dalla furia fanatica di un assalitore, che era riuscito a ferirlo.

Simile a papa Giovanni apparve Giovanni Paolo I, ispiratosi nei nomi ai suoi due predecessori. Impossibile non avvicinarne la bonomia dei tratti al primo, e la voglia di portare la Chiesa sempre più nel mondo, all’agire del secondo. La morte improvvisa, dopo un pontificato brevissimo, lasciò adito, come noto, a interpretazioni diverse.

E venne un uomo -lui, Giovanni Paolo II, papa Woytila- con il lungo pontificato che ha attraversato la gran parte della vita di tanti di noi. Il papa grande del dialogo con il mondo, il papa dei giovani, ma anche della sofferenza fisica.

Se Pacelli era stato per tutti il papa dei bombardamenti e Giovanni XXIII il papa delle carezze dei bambini e della luna, e dei grandi sogni degli anni Sessanta, Giovanni Paolo era stato chiamato a seminare nel campo minato delle contraddizioni di un mondo in cammino tra nuove meraviglie, ma anche rinnovate sofferenze e difficoltà.

L’attentato e la lunga malattia sono apparsi quale immagine, non negata né nascosta, di un pontefice che ha incarnato proprio in sé, come Cristo, i patimenti della sofferenza e del dolore fisico.

Benedetto XVI, papa Ratzinger, il pontefice tedesco pronosticato da Thomas Mann, ha portato invece, tra le tante doti, la sapienza della Sacra Scrittura, e l’umiltà dell’ammissione dei limiti umani.

E Francesco? La scelta dello Spirito ė scesa su di lui sei anni fa.

Da allora ad oggi ha dimostrato di essere l’uomo di Dio che rompe gli schemi: la sua borsa nera, gli occhiali acquistati personalmente nel negozio di un ottico durante la prima fuga dai palazzi del Vaticano, le scarpe non belle e “fuori ordinanza”, così diverse dai mocassini imposti dal cerimoniale a Benedetto, dicono tanto del suo modo di porsi, delle sue licenze spirituali di uomo libero. Della sua semplicità di modi e di vesti. Del suo anticonformismo e coraggio.

Le sue parole lo rivelano uomo di grandissima cultura e modernità, di assoluta attenzione ai tempi, di adesione alla globalizzazione, ma nei suoi aspetti migliori. La visita negli Emirati Arabi dello scorso febbraio ne ha confermato la pragmaticità, quando ha affermato la fratellanza e uguaglianza di ogni uomo, pur nelle diversità di religione.

Ricordate il Papa di Moretti, che fugge intimorito perché proprio non ce la fa a reggere quel che tocca in sorte al successore di Pietro? Ebbene, se si è pensato a Benedetto a proposito di quel papa di Moretti -che fisicamente ricordava peraltro più Giovanni Paolo II- e se si è pensato anche a Bergoglio, quando si è visto quest’ultimo circolare en privé per le vie di Roma, sembra in realtà che proprio in lui, Francesco, il papa morettiano sia superato: nella figura immensa di un pontefice che, se si prende certe libertà, non rinuncia però al ruolo fondamentale di pastore del mondo, capace anche di volare negli Emirati, per colloquiare con chi lo vuole ascoltare.

Un papa umile e insieme grande che non ha paura di se stesso, del pesante fardello che il Conclave gli ha assegnato, e neppure di quanti nel mondo manovrano disinvoltamente le leve politiche ed economiche. È insomma un pontefice postmorettiano, un gesuita ardito e colto. Che predilige i poveri e castiga i corrotti. Che non ha paura dello scandalo e neppure della Storia, come ha detto aprendo gli archivi vaticani.

 È con lui a fianco, il mio settimo papa, che stiamo cercando di camminare in tanti.

A me sembra che non poteva toccarci miglior pastore. Per semplicità nel porsi e per coraggio, conoscenza e senso del presente -ma anche grande attenzione al futuro- e per la sua protezione riservata particolarmente ai deboli e ai perseguitati.

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