È bello ascoltare i discorsi tra amici, anche se talvolta sono banali e hanno caratteri diversi a seconda dell’età dei chiacchieroni. Solo l’età? Contano molto la cultura e l’intelligenza del gruppo. Abbiamo discorsi talvolta superficiali ma spesso profondi circa l’immenso avvenimento della vita, discorsi riguardanti gli affetti, la politica, relativi a fatti gravi, a esperienze del lavoro, della salute, della bellezza, degli orrori umani, dell’esistere, quindi lontani dal superficiale. L’altra sera un mio amico ha raccontato questa esperienza: “Sentite cosa mi ha detto una suora di clausura, una monaca, mia lontana amica d’infanzia che vive questa sua vocazione che fatico a capire”.
“Oggi ho pregato dicendo il rosario dedicato ai misteri gaudiosi. Ho partecipato intensamente al gaudio vissuto dalla Madonna, alla gioia, alla serenità, al timore, allo sconvolgimento provato dopo aver scoperto la sua vocazione di madre, vocazione annunciata. Ho pregato sperando, desiderando, invocando che anche in te, nella tua vita, possa riversarsi quel vivere intenso. Che il gaudio di quei misteri prenda anche te e “consoli la tua anima”.
Questo pensiero detto da una monaca che ha passato una vita raccolta nel monastero, una vita dedicata a meditare il mistero (mi piace questa assonanza delle due parole) mi ha sconvolto e emozionato. Io, come spesso devo constatare, non so assolutamente pregare. Mi vien da dire che, se non so pregare, non so nemmeno vivere; infatti non vivo i momenti della vita, ma sono loro che vivono me. Non so avere l’intensità di pensiero di cui è stata capace quell’anima benedetta nel vivere il momento della preghiera e so che tutti i momenti della sua vita sono vissuti cosi intensamente, anche i più semplici.
In effetti io non vivo la vita, ma è la vita che mi vive con tutte le conseguenze di questo vivere passivo, per cui io affronto i momenti felici, i momenti così così (come usiamo dire), i momenti duri. Questi passano veloci, possono essere istanti. Sento il futuro avanzare e lo spero colmo di benessere. Un po’ paganamente attendo i fatti, faccio gli scongiuri, mi auguro che siano positivi e non mi preparo ad affrontarli, a viverli attivamente in gaudio o in dolore. Non so farli diventare momenti positivi per gli altri e per me. Ripeto e concludo quindi: non so vivere e non so trasformare il vivere in preghiera. Ma poi un bel giorno “ZAC” finisce tutto. Ma anche quello “zac”, quel momento, quell’evento come sarà da me vissuto? Io che non posso, che non so dire di aver fede, spero che ugualmente Qualcuno mi aiuterà. E gli atei? Quelli che hanno la sicura fede di non credere, come affrontano questi temi? Li vedo spesso più bravi di me.
Non riesco a capire bene come vivono tutti quelli che mi circondano. Forse vivono e pregano meglio di me. La monaca di cui ho parlato certamente vive meglio perché sa legare preghiera e vita coinvolgendo gli altri in un profondo spirituale atto d’amore.
Accidenti che parole grosse, immense: “profondo atto d’amore”. Ma io, misero essere passivo, so amare? E no! Ripeto per l’ennesima volta: non so pregare! Sono come gli apostoli che chiedono a Gesù “…insegnaci a pregare …” che cosa dobbiamo dire per pregare?” Mi vien da concludere che non son le parole che contano ma il nostro atteggiamento nei confronti della vita, nei confronti degli altri, nei confronti dell’Altissimo, se c’ė.
È dura per una mia fede molto vacillante, molto attraversata da dubbi!
A questo punto un altro ha aggiunto: “Amici (a dir la verità uscì con una imprecazione), nella vita di ognuno di noi ci sono momenti di gioia, ma anche di grande dolore. Molto difficile saperli vivere, percepirli nel modo giusto. Apprezzare i momenti felici e altri momenti di sofferenza. Ma perché soffrire? L’uomo è nato per soffrire o per essere felice? Quale il mistero della vita?” A dir la verità non usò queste parole, come non usò “amici”: Il suo linguaggio fu molto più colorito con termini diciamo “crudi”, più da osteria, ma anche dentro parole simili ci può essere saggezza, per chi la sa cogliere. Secondo me è saggio chiederti perché soffrire, perché cercare di rifiutare la sofferenza.
Questi discorsi non sono novità, ma ciò che ci turba è l’incapacità di rimediare a questa pigrizia esistenziale. Possiamo definirla cosi? Qualche anno fa due noti comici nostrani cantavano che per vivere bene “… basta avere l’umbrela …” e davano ridendo una lezione di vita, lasciando ampia libertà d’interpretazione del significato del termine.
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