I “bip” dello smartphone mi annunciano una serie di messaggi: un amico mi invia foto del carnevale di Venezia. Le faccio scorrere incantata e sconcertata. È tutto un trionfo di colori e di barocchismi che rasentano l’assurdo: sete, crinoline, piume di struzzo, improbabili copricapi decorati con fiori, frutti, animali; addirittura, in precario equilibrio su un cappello di rami e foglie, troneggia un orso bianco in miniatura. Vere e proprie opere d’arte, alcune, create apposta per suscitare meraviglia. E risate: è carnevale, dopotutto.
C’è un elemento, però, che non fa sorridere, anzi, un po’ inquieta: quasi tutti i volti sono coperti da maschere neutre. Alcune a metà, la maggior parte intere. Nere, bianche, dorate, argentate, bronzee: tutte ostentano la stessa imperscrutabile espressione. Chi si nasconde dietro quell’assenza di emozioni? Uomini o donne? Vecchi o giovani? Che cosa pensano, che cosa provano mentre la fotocamera li immortala? Com’è stata la loro vita fino a ieri, che cosa li commuoverà domani?
Mentre li osservo mi domando quale fascinazione induca gli esseri umani a mascherarsi, che cosa ci attragga nell’essere altro da ciò che siamo. Non parlo dei bambini: per loro è l’abito, da supereroi o da principesse, che li fa essere per un giorno ciò che vorrebbero essere tutta la vita. Ma noi adulti lo sappiamo che è un’illusione inevitabilmente destinata a svanire e dunque, già in partenza, una delusione.
E poi, non siamo sempre maschere? Cambiamo abito secondo le circostanze, modifichiamo il nostro atteggiamento adeguandolo alle persone con cui abbiamo a che fare, persino con gli amici parliamo in modo differente a seconda del diverso grado di confidenza. E infatti ognuno ci attribuisce caratteristiche che altri non colgono. Crediamo di essere uno e invece siamo centomila.
Forse proprio per questo ci attrae il camuffamento: perché ci consente di uscire dalle forme che gli altri ci attribuiscono. L’abito insolito è un gioco, un divertimento che ci fa rivivere il sogno infantile, ma l’elemento più importante è la maschera che ci copre il volto, che ci impedisce di essere centomila e, contrariamente a quanto si può pensare, non ci rende “nessuno”, ma ci apre infinite misteriose possibilità e impedisce agli altri di ingabbiarci in una forma: dietro la maschera inespressiva siamo noi i padroni della nostra persona. Non era proprio questo, “persona”, il termine con cui i latini indicavano la maschera?
Infatti la maschera, nascondendoci, paradossalmente ci identifica: comunica a chi ci guarda che non potrà conoscerci né definirci, perché dietro quella forma imperturbabile si può intuire solo il mistero, il mistero di ogni essere umano, che non suscita ilarità né giudizi,ma solo un rispettoso silenzio.
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