“Uno vale uno” – gridava dal palco il capo comico. “Ogni testa, un voto” – urlava il nuovo profeta della democrazia diretta. Hanno ragione: in uno stato democratico il voto dell’elettore erudito vale quanto quello dell’elettore ignorante, ma il parere di diecimila uomini non ha alcun valore se nessuno di loro sa niente sull’argomento. Ecco perché la forza di uno stato democratico dipende soprattutto dallo scegliere uomini e donne competenti che possano essere titolati a rappresentarlo degnamente e con competenza in un’assemblea che dà loro voce indirettamente.
La democrazia si fonda su questo paradosso: ognuno di noi conosce più persone che sono ignoranti e malvagie e che non sono, quindi, né sagge né buone. Sarebbe logico pensare, quindi, che le decisioni prese in una democrazia diretta siano caratterizzate dall’ignoranza e dalla malvagità. Sarebbe come dire che fidarsi di molti significhi fidarsi dei peggiori. In verità, il voto che si chiede nelle assemblee popolari o cliccando un tasto collegato con una piattaforma digitale può assumere un significato davvero democratico solo se si deve compiere una scelta ben precisa tra due opzioni altrettanto ben precise. È stato il caso di quando i nostri genitori sono stati chiamati a scegliere tra repubblica o monarchia o quando siamo stati chiamati a confermare o meno il voto del parlamento che si era espresso a favore del divorzio. La nostra Costituzione ammette, infatti, il “referendum”.
Lo spazio pubblico oggi, al contrario, è diviso in due campi: da una parte coloro che difendono la verità, l’oggettività dei fatti, della ricerca scientifica, dei risultati matematici (quando sono espressi da persone assolutamente imparziali!), dall’altra, da un numero sempre crescente di persone che non dà loro credito e ostentano indifferenza nei confronti dei dati oggettivi.
È assolutamente erroneo chiamare “democratico” un voto popolare che deve esprimere un parere favorevole o sfavorevole sull’autorizzazione a procedere presso il tribunale dei ministri per un ministro accusato dalla magistratura di un reato. Il voto che ne risulta è alterato perché i votanti non hanno potuto documentarsi leggendo le carte e non possono conoscere la verità, votare con coscienza libera da pregiudizi. In una società come la nostra, dominata dal parapiglia dei social e dei talk show, il votante potrebbe credere – come ha dichiarato il ministro della Giustizia durante una trasmissione televisiva – che “il ministro ha compiuto il reato non per sé, ma per gli altri”. Il parlamento è visto come un sigillo da porre su decisioni prese da due, tre capi, una perdita di tempo per dibattiti ritualizzati che finiscono in risse utili solo per denunciare la pompa protocollare e i dettagli banali.
Pensate un po’, cari amici lettori, se fossimo chiamati ad esprimerci su questioni che riguardano il Paese come i piani militari o l’economia: come potrebbe il parere del profano avere lo stesso valore dell’opinione del generale quando si tratta di decidere la strategia per difenderci dal nemico? Lo avevano capito gli stessi ateniesi che avevano decretato che le stesse leggi valevano per tutti, ricchi e poveri, nobili o plebei, furbi o sciocchi (ma non schiavi né donne!), ma che non sostennero mai che tutti gli esseri umani avevano diritti politici uguali per tutti, ma erano riservati solo i valorosi cioè coloro che avevano dimostrato di valere, nati nella polis, essere maschi, di una certa età.
Oggi, coloro che dovevano rappresentare il cambiamento, si dimostrano incapaci di governare perché non conoscono queste semplici regole della democrazia. E sono diventati come gli altri, anzi peggio. Il segreto di una vera democrazia sta nell’intrecciare i deboli fili delle giuste richieste del popolo con quelli delle regole di una repubblica parlamentare.
Scriveva Norberto Bobbio: “La nostra democrazia è minata. E i nostri rappresentanti mi fanno l’effetto di minatori incoscienti che si mettono a fumare sigarette in una miniera piena di grisou”. Il grisou ha due nomi: populismo e nazionalismo.
Il populismo condanna la corruzione del potere politico, ma non guarda in casa propria; sospetta della democrazia rappresentativa; dichiara “io posso, io posso” perché, alleandosi con partiti che, prima delle elezioni aveva strenuamente combattuto, gode di una forte maggioranza in parlamento. Identifica un certo numero di nemici (il diverso, lo straniero, l’immigrato, il tossicodipendente) da combattere perché così vuole “il popolo”. Il populista parla al popolo e in nome del popolo che viene contrapposto alla élite. Il capopopolo sostiene che solo chi lo rispetta sta veramente dalla sua parte, mentre coloro che non parteggiano per lui, “gli altri”, sono moralmente corrotti. In mezzo a questa massa, le persone che contrastano il capobastone non hanno voce e ogni interlocutore diventa un avversario. “Gli altri”, nelle migliori delle ipotesi, si riducono a figure di contorno o, peggio ancora, in strumenti per raggiungere obiettivi che stanno a cuore della parte populista. E in questo populismo aumenta la solitudine del cittadino, che smette di chiedersi perché sia così difficile legarsi, relazionarsi con gli altri, partecipare alla vita pubblica.
Il populista, inoltre, è colui che si vanta di “fare”, è un uomo d’azione, un partigiano dei fatti contro le chiacchiere, uno che crede di trovare sempre “la quadra”, non con la mediazione, ma con il compromesso.
Il secondo malanno della nostra democrazia si chiama nazionalismo, forse un po’ nascosto dietro la difesa di una identità che non è messa in pericolo. Il nazionalismo, di solito, nasce contro un nemico dello stesso paese, individuo libero, intelligente, stravagante di cui ridicolizza con sarcasmo la difesa delle libertà costituzionali. O irride di uno stato-nazione che ritiene più forte economicamente, che accusa di essere troppo liberale, di non rispettare trattati internazionali.
Che cosa c’è dietro questo fenomeno? La rabbia, la diseguaglianza, l’ossessione per il potere, l’idea della libertà sganciata dalla responsabilità, l’egoismo, l’individualismo, ma soprattutto: “Il buon senso che se ne era andato per paura del senso comune” (A. Manzoni).
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