Nel suo libro “La fine delle società”, il sociologo francese Alain Touraine sostiene che non siamo in un mondo post industriale bensì in uno post sociale dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.
A partire dagli anni sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione ha progressivamente svuotato di senso le categorie politico sociali con cui eravamo abituati a pensare: stato, nazione, democrazia, classe, famiglia. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e agli altri spettatori. Al centro devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale.
L’indignazione non basta. Occorre partire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. È una questione fondamentale per ripensare la società. La libertà. L’uguaglianza ma anche il diritto alla dignità. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Lo scopo importante e nobile della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale. La democrazia che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori post sociali.
Mentre rileggevo alcuni passaggi ho pensato al lavoro di un altro sociologo Luciano Gallino, scomparso pochi anni fa, interprete di un riformismo autentico: la conoscenza e l’analisi dell’intera parabola capitale-lavoro nella seconda parte del novecento. Ha utilizzato come metro di valutazione le persone che in quegli anni venivano rese protagoniste o schiacciate dal dualismo Fiat – Olivetti. Chiamato da Adriano Olivetti a Ivrea negli anni cinquanta e sessanta, fu protagonista di uno dei principali laboratori di analisi sociale e anche scuola di formazione per intellettuali e futuri esponenti della classe dirigente italiana. Il capitalismo dal volto umano di Olivetti aveva consentito il raggiungimento di livelli di produttività mai raggiunti prima negli stabilimenti del nord. Grazie ai suoi modi di agire e alla voglia di lavorare degli operai campani, fu raggiunto un livello di produttività molto elevato nel nuovo stabilimento di Pozzuoli.
La competizione avvenne a colpi di marketing sociale: industria di massa che aveva sconvolto le geografia sociale di Torino, quella degli Agnelli; città/comunità che realizzava prodotti d’avanguardia, quella degli Olivetti. Gallino nello scorcio d’inizio secolo era convinto della necessità di un cambio radicale di sistema economico, culturale, sociale. Negli ultimi decenni nessuno in Italia e pochi al suo livello in Europa e nel mondo, hanno saputo svelare una lettura autentica del capitalismo finanziario, la “mega-macchina” che produce denaro per pochissimi e miseria per tutti gli altri. Una macchina mostruosa che ha rinunciato a produrre merci, per concentrarsi sulla moltiplicazione di denaro: è l’economia immateriale, che nondimeno continua a vedere l’arricchimento di un pugno di famiglie e l’impoverimento di tutte le altre, nello scenario delle società dominate dal neoliberismo e dall’ultra capitalismo. È stato uno studioso che ha concretamente proposto un piano per uscire dalla crisi. Per prendersi cura dell’Italia bisogna utilizzare gli investimenti pubblici per creare lavoro, ristrutturare scuole, riparare strade, mettere in sicurezza il territorio abbandonato, ristrutturare il patrimonio immobiliare esistente. Questo è il suo testamento. Per far crescere i giovani serve necessariamente il lavoro. E prima di raggiungere livelli di tensione inarrestabile varrebbe la pena di sviluppare un vero patto intergenerazionale per avvicinare giovani e meno giovani attraverso lo scambio di competenze e se necessario anche di solidarietà economica. Sarebbe un manifesto politico a cui nessuno potrebbe rinunciare per la serie: “lavoriamo meno, lavoriamo tutti”. Saper andare oltre gli slogan vuol dire decidere di stare insieme e creare anche veri centri di coworking. I soldi per finanziare i nuovi sistemi ci sono: utilizzare i fondi sociali europei e una volta per tutte, mettere fine alla corruzione e all’evasione fiscale. Ci vuole uno slancio sociale che Gallino avrebbe volentieri approvato e sviluppato.
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