A conferma degli attacchi di detrattori e nemici Giampaolo Pansa fa una confessione: Sì sono fascista. O meglio: Pansa lo è stato per davvero “fascista”, nella primavera del ’43, quando Giampaolo aveva otto anni. E pubblica una foto di sé, scattata dal babbo Ernesto in piazza Dante a Casale Monferrato, in divisa di “figlio della Lupa”, sulla copertina del suo libro più recente: “Quel fascista di Pansa”, uscito in questi giorni per i tipi di Rizzoli.
In seguito – cioè dopo quella primavera del ’43 – le cose cambiano: per il fascismo che cade nel luglio di quello stesso anno, per il terribile e tragico colpo di coda della Repubblica di Salò, e per il Pansa che cresce, che finisce il liceo, fonda con alcuni amici a Casale un “Gruppo Piero Gobetti”, si iscrive a scienze politiche a Torino dove si laureerà con una tesi “monumentale” sulla lotta partigiana tra Genova e il Po, la sua terra, e dove comincerà il suo lavoro di giornalista e inviato speciale alla Stampa, passando poi per Giorno, Messaggero, Corriere della Sera, Repubblica, l’Espresso… Un numero uno della carta stampata del mezzo secolo appena trascorso.
La foto del piccolo Pansa sulla copertina, il titolo sono naturalmente una provocazione, perché il libro è in buona sostanza una sintesi, e talvolta una zoomata, delle polemiche che – negli ultimi quindici anni – si sono succedute alla pubblicazione di un altro libro di Giampaolo Pansa: il Sangue dei vinti, la storia delle efferatezze e dei delitti compiuti da “epigoni” dei partigiani, per lo più di ispirazione comunista, alla fine della guerra, e anche nei mesi (e negli anni) succedutisi al 25 Aprile del ’45.
Non è che quelle storie non si conoscessero, perché a onor del vero alcuni degli episodi ripresi da Pansa, erano già stati raccontati, e qualche volta anche pubblicati, ma quasi sempre da scrittori e giornalisti che avevano combattuto nelle file della Repubblica Sociale, e quindi a rigor di logica ex fascisti. La pietra dello scandalo, per i detrattori e i nemici, sta nel fatto che ne avesse scritto un giornalista di grande valore, Giampaolo Pansa, considerato – a torto o a ragione – un “giornalista rosso”, un simpatizzante. Ergo, specie dopo quel libro (cui ne seguirono altri), un traditore. Un voltagabbana. Un falsario.
Contro il Sangue dei vinti e il suo autore fu scatenata un’offensiva di insulti – dove quello di “fascista” sembra essere oggi il meno grave – di boicottaggi alle presentazioni del volume che in certe occasioni rischiarono di diventare risse (provocate da coloro che non accettavano i racconti di Pansa), di virulenti attacchi da parte anche di “storici accademici” i quali accusavano il giornalista di scarsa “documentazione”, attacchi però sempre bene rintuzzati dal giornalista. Ma tutto ciò, agli effetti, si trasformò in una pubblicità gratuita.
Il libro il Sangue dei vinti, pubblicato nel 2003 da Sperling&Kupfer, risulta oggi uno dei saggi storici più venduti nell’Italia del secondo dopoguerra: più di un milione di copie. Nella saggistica un caso che, riferito alla letteratura, può essere paragonato quasi alla traduzione e alla pubblicazione del Dottor Zivago di Pasternak o alla “scoperta” del Gattopardo e di un autore come il principe Tomasi di Lampedusa.
Ci sarà pure una ragione di questo successo. Perché si ha l’impressione che spesso i detrattori non abbiano mai letto nemmeno una riga di Pansa, le sue premesse, le sue indicazioni, limitandosi a un rapido sfoglio o al sentito dire.
Di interesse, vero e non casuale, per esempio, sono le pagine che Pansa dedica, o ridedica, al “confronto” che ebbe con un altro importante giornalista, Giorgio Bocca, di Cuneo, anch’egli storico della Resistenza, nonché combattente nelle file partigiane di Giustizia e Libertà. Come le pagine del colloquio con la moglie di Pansa, Adele Grisendi, già sindacalista della Cgil, che dei libri del marito in questi anni è stata collaboratrice morale e anche materiale.
Anche questo libro, dunque, è un libro utile per capire, per farsi un’idea – soprattutto se rivolto alle generazioni più giovani – di quanto accadde nel nostro paese settantacinque anni fa, e dopo… Giampaolo Pansa ha scritto della “guerra civile” che devastò il Paese dal ’43 al ’45. Non ha mai sottaciuto i valori che stavano dalla parte di chi quella guerra la vinse, ma ha voluto dare una voce anche ai vinti, perché non ci può essere pace (o pacificazione) reprimendo o cancellando queste voci.
E dice bene un lettore di Pansa – nell’ultimo capitolo del libro sono pubblicati stralci delle lettere ricevute dall’autore, quelle di offesa e di sostegno – quando afferma che la verità, e dunque la libertà, sta nella conoscenza e nell’ascolto di tutti le voci.
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