Quanti abitanti avrà avuto Ghirla negli anni’60? A me – bambina – appariva come un clan, più che un paese: un intreccio di famiglie intersecate e confuse tra loro da legami complicati e inestricabili, nel quale tutti erano cugini di tutti. E tra loro, ma all’interno della trama, non accanto, un piccolo numero di personaggi strani, che affettuosamente venivano chiamati “matuchèl”. Persone stravaganti, allergiche alle regole e alla normalità, fantasmagorici nel comportamento e nelle scelte: che, comunque, tutti accettavano per quel che erano. Avevano trovato e abitavano una loro nicchia all’interno della comunità, e a nessuno saltava in mente di averne paura o di rinchiuderli. Come se, facendo parte del villaggio, dovessero essere aiutati e in un certo senso protetti.
Il Batistùn in effetti a me una certa paura la faceva. Era un omone grande e grosso, taciturno, con due mani come badili e un procedere lento e inesorabile. Grande bevitore. Non suonava il campanello della casa dei nonni, ma chiamava forte, dietro le sbarre del cancellone sulla statale, quello che noi non usavamo mai. Andava la nonna, fragile in apparenza ma dura come l’acciaio, ad accordarsi per qualche lavoro in giardino. E gli preparava un panino grosso come lui – ma niente vino – per sostenere la fatica del falcetto. Difficile che portasse a termine l’impegno, a un certo punto piantava roncola e attrezzi e se ne andava, salvo passare il giorno dopo a farsi pagare il dovuto. E a chiedere altro pane e salame.
L’Angioleu invece un lavoro ce l’aveva, vendeva le uova delle sue galline che – mi sembra di ricordare – teneva libere in casa. Era una donnetta sporca come il peccato: avvicinarla era una sfida, per il profumo che emanava. E parlava senza sosta, a mezza voce, con interlocutori fantasma. Ci andavo con la mamma, mi pare che abitasse verso il lago, al primo o al secondo piano di una casa comunque dignitosa, e la mamma la trattava con rispetto. Forse era scivolata nella pazzia dopo un evento tragico, ma non se ne parlava: fatto sta che era una minaccia ricorrente, “Mica vuoi finire come l’Angioleu”, se non ci lavavamo per bene.
Il meglio però era il Cirlìn. Piccolo e nevrastenico, vestito con una certa dignità, si esibiva con rischioso talento come vigile urbano all’entrata della stazione delle corriere, in mezzo alla strada o al centro del piazzale, pretendendo di governare l’uscita e l’entrata dei mezzi, con grandi gesti teatrali e addirittura, una volta, con un fischietto scovato chissà dove. Se non riusciva a farlo desistere, il povero capostazione veniva allora a chiamare “l’ingegnere”, mio papà, che con la sua autorevolezza e la sua bonomia, un approccio amichevole e ironico, riusciva sempre a convincerlo che era il momento di riposarsi e tornare a casa, o almeno a togliersi dal pericolo della strada. E alla mamma che si lamentava del pranzo interrotto, diceva picchiettando l’indice sulla tempia: “Poer Cirlìn…”.
“Povero”, non “rompiscatole”: e noi imparavamo senza accorgerci che c’è posto per tutti, al mondo, e almeno per un pizzico noi tutti ne diventiamo responsabili.
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