«Se il canone Rai si paga nella bolletta della luce… da domani accendo solo candele». Ho trovato questa fulminante – è proprio il caso di dirlo – battuta di Enzo Iacchetti su Anteprima.news di venerdì 8 febbraio e ho subito pensato: anch’io. Non so quando l’abbia pronunciata, ma so che io voglio dirlo adesso: non ne posso più del festival di Sanremo. È dalla fine degli anni ’60 che non lo seguo: mi annoia quella serie di canzoni sconosciute, che ancora non mi sono entrate nell’orecchio, e spesso la musica leggera mi rattrista.
So che la maggior parte del pubblico italiano lo apprezza, ma vi par possibile che se ne parli per tre mesi, che vada in onda per cinque serate cinque, che tutti i telegiornali si colleghino con i protagonisti, che la nostra TV non abbia resistito nemmeno al fascino del balcone – benché chiamato pudicamente “balconcino”? D’accordo, è sempre stata un’arma di distrazione di massa, ma sta diventando anche tortura.
È vero, si può cambiare canale ed è ciò che faccio regolarmente, ma se volessi seguire il notiziario di una delle tre principali reti RAI non mi salverei: per tutti e cinque i giorni il festival è passato come prima o seconda notizia, prima della crisi in Venezuela, prima della protesta dei pastori sardi, prima degli scontri di Torino tra anarchici e polizia, addirittura prima – ed è l’unico aspetto positivo – delle liti tra Lega e Cinque stelle. Per non parlare della qualità delle interviste: per almeno due settimane, durante i TG, qualche inviato ha puntualmente chiesto al cantante di turno: “Emozione? Responsabilità?” Andrea Bocelli, come avrebbe fatto chiunque con un minimo di buon senso, ha risposto che di responsabilità si può parlare per un chirurgo che si accinga ad entrare in sala operatoria, non per chi sale sul palco dell’Ariston.
Per fortuna è finito, ho pensato domenica mattina. E no, c’è il dopo festival. E poi c’è Che tempo che fa, e i vari TG dossier e le polemiche su facebook e twitter… Addirittura è stato nobilitato dal punto di vista sociologico come terreno di scontro tra “élite” e “popolo”.
Un marziano che si trovasse ad atterrare in Italia penserebbe di essere approdato sull’Isola Felice, dove la povertà è stata sconfitta per decreto, la schiavitù risale ai tempi di Spartaco e non esiste disoccupazione. Un Paese dove di delinquenza non c’è traccia, dove i conflitti sociali e politici vengono sanati per contratto, dove tutti sono felici di pagare le tasse perché sanno che si trasformano in servizi efficienti: le scuole sono edifici modernissimi e super attrezzati in cui studenti, insegnanti e genitori si comportano da gentlemen, negli ospedali non passeggiano scarafaggi e formiche, i tempi di attesa per un esame clinico sono al massimo di una settimana, i treni ad alta, media, e bassa velocità partono e arrivano, i ponti non crollano. Un Paese, insomma, che ha risolto tutti i suoi problemi. Perché solo in un Paese così, penserebbe il marziano, si possono dedicare mesi ed energie a parlare di canzonette.
Forse comincerebbe ad avere qualche dubbio e a non capirci più nulla se sentisse le discussioni su un Ultimo che dovrebbe essere Primo e che invece è Secondo.
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