Antefatto. “Non avevo mai immaginato prima quanto fosse grande la sofferenza di queste persone”, mi dice M. a due passi da casa, nei pressi della mensa della Brunella chiusa la domenica. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti. M. e il cognato hanno soccorso un uomo e vedendomi passare chiedono informazioni. L’uomo, nato nel Corno d’Africa, magrissimo, ha il viso affaticato, è terrorizzato, ha fame e trema di freddo. Indossa una giacca a vento logora, una maglietta, i pantaloni di una tuta e usa due coperte infeltrite per ripararsi. Sulle spalle ha uno zaino con pochissimi effetti personali: è tutto quel che possiede. Non ha soldi né probabilmente documenti. È in stato di abbandono, quasi vegetativo. È più, o meglio ancor meno, di un homeless, dacché manca di tutto. Provate a mettervi nei panni di chi non ha nulla: mai direste che è qui a “fare la pacchia a nostre spese”. Ogni altra informazione è dubbia. Da quale paese l’uomo è originario? Come è entrato?
C’è ancora un filo di bontà nell’animo delle persone, mi dico. Solo tre sere prima avevo assistito alla violenza verbale di due controllori che, proprio di fronte al Comune, minacciavano un povero diavolo nigeriano che non aveva pagato una corsa da un euro e quaranta centesimi. Certo, la legalità va rispettata in ogni circostanza, ho spiegato in inglese al ragazzo; ma vi è anche (sempre in inglese ma rivolto per via obliqua ai due cerberi, quanto bastava perché capissero) un margine di rispetto dovuto alle persone, anche a chi non paga un biglietto; e il rispetto che tributiamo agli altri vale miliardi di trilioni di più di un insignificante euro e quaranta. Davanti a questa sfrontata e meschina miserabilità del mondo, l’incontro con M. e il cognato mi ha rincuorato. È morta la speranza; ma almeno la pietà non è del tutto estinta.
Mi adopero per aiutare la persona soccorsa e i suoi soccorritori. Con la prima telefonata mi illudo di aver fatto bingo: trovo un letto, seppure per una sola notte. Cerco di fare qualcosa di più, ma le cose si complicano. Concordo con un amico un percorso da esplorare. Attendo invano una chiamata. Cerco ancora, alla rinfusa. Trovo persone di buona volontà, rodate da decenni di esperienza quotidiana. La persona soccorsa, mi illudo, avrà un minimo di aiuto: assistenza durante il giorno, possibilità di cibarsi, controlli medici. Dovrà solo arrangiarsi per dormire.
Riflessione postuma. La strada si è rivelata illusoria. Il giorno dopo, in preda al terrore come un animale braccato, l’uomo d’impulso si è eclissato. Queste persone tentano alla cieca una via di fuga. Implosi nella paura, finiscono dilaniati in mille schegge. Non si fidano di nessuno. Come sono comparse, spariscono. Lasciano tracce riconoscibili solo a posteriori, e solo da chi, sempre a posteriori, dispone di informazioni. Questo, almeno, credo di aver capito.
Ogni buona intenzione non si scontra solo con l’inesperienza. Sembra vanificarsi perché non ha né può avere una meta. Mi tornano in mente le parole di Schindler nel film di Scorsese: “Le vite si salvano ad una ad una, una per volta”. Rispetto agli ebrei nei campi, la situazione è incomparabilmente migliore. Ma un confronto non è inutile. Si tratta di due contesti parimenti incommensurabili agli sforzi di ogni singolo. Quanto al resto, la situazione estrema scoraggiava l’impegno dei quasi-tutti e incoraggiava l’eroismo di esigue minoranze. Il dramma dell’olocausto e della persecuzione in apparenza esonerava dal prendersi delle responsabilità: come resistere? Tutti invece erano ugualmente chiamati a farsi carico del mondo, ma alla condizione di caricarsi sulle spalle un peso insostenibile. La forza di rispondere a un interiore appello morale era un bene rarissimo. In assenza di alternative, la testimonianza era per quei pochi un valore non negoziabile.
Paradossalmente oggi è più facile e più difficile farsi carico del mondo per ragioni inverse. Chi aiuta rischia poco. Il sistema in cui viviamo accorda (forse non ancora per molto) un minimo di protezione. Ma nessuna urgenza del tempo ci costringe a compiere scelte assolute, solo nostre, che ricadono su di noi ora dopo ora, giorno dopo giorno. La testimonianza non basta, e serve a poco. È assurdo – ci diciamo non senza ragione – cominciare ogni volta da capo, senza destini e senza futuro. Nei lager contava anche solo sopravvivere un giorno sperando di sfuggire il futuro. Oggi chi soffre e chi aiuta i sofferenti in situazioni estreme può ripetere il presente, ostinarsi nel preservare l’immediatezza della vita e un minimo di dignità, ma non può afferrare un qualunque futuro.
Mi chiedo se il motto kantiano che da calvinista laico ho fatto mio – “Agisci in modo che la massima del tuo volere possa valere come una legge universale” – abbia qualche utilità in circostanze come queste. Scopro che la domanda non ha valore. Semplicemente, non è lecito desistere. Esiste uno standard minimo di bene, una specie di soglia sotto la quale non è lecito andare, pena la fine delle ragioni elementari della convivenza. Da decenni ho smesso di scomodare gergalità inutili come “l’Altro”, “l’Incontro”, “lo Straniero”, “l’Umanità”, “Senza perdere la tenerezza”, eccetera. Ogni atto è una scelta puntuale, priva di retorica, senza giustificazioni a priori, che ha senso in se stessa. So che il Bene non è una disponibilità illimitata e che anzi non esiste di per sé. Anche Torquemada, Robespierre, Stalin, Franco, Khomeyni e i tagliagole metaforici che oggi spopolano nel web dichiaravano (e dichiarano) di agire in nome del Bene. Più la pretesa del Bene è maiuscola e più è pericolosa, persino oscena. Conta la minuscola, sommessa decisione ad ogni bivio che la vita quotidiana, per lo più per caso, ci impone. Conta un moto silente e impercettibile che viene dall’animo: un moto insieme spontaneo e coltivato, un’inclinazione ma altresì un modo di viversi che è appreso o disimparato. Conta infine come narriamo noi a noi stessi e quali giustificazioni scegliamo per il nostro puntuale agire o non agire. I due cerberi si raccontano come tutori della legge, ma eccedono: debordando da ogni misura, chi li vede all’opera li racconta come negatori della dignità altrui. Non c’è alcun amore per la legge in loro; e la loro empatia è prossima allo zero assoluto.
A ben vedere il cuore del problema è la nostra impotenza, un circuito senza esito. Nessuna vita ha senso se si limita al mero reiterarsi. Nell’assenza di futuro dei più il nostro stesso futuro (privilegiati anche quando poveri) è andato smarrito. Nessuno di “noi” è un nulla che non ha nulla. Per usare delle parole grosse, la nostra povertà peggiore è quella del cuore. Progettiamo – così apprendo – ambulanze per gli animali domestici, trasudando bontà dove è facile (a prescindere dai costi). Ma per i dannati della terra, che vivono in stato sub-animale, non sappiamo bene cosa fare. Io per primo.
Ho la vaga impressione che si sia noi a “tirare sotto” i dannati della terra e a farli sommergere dal nulla: altro che balle elettorali. Forse ce la potremo cavare restituendo un minimo di decenza civile e politica alle istituzioni: dai rioni all’Europa e ritorno. Morale della favola: avessi confidato nella prefettura, nella polizia e negli ospedali più che nell’innegabile generosità dei singoli, avrei fatto meglio. È arduo sfidare il senso comune, ma è così. Gli automatismi di un eccesso di empatia sono un ostacolo.
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