Meno mistica della Varese seicentesca della fabbrica del Rosario e meno nobile della “piccola Versailles” di Francesco III d’Este, più visibile delle appartate vestigia risorgimentali e altrettanto chiassosa dei grandi alberghi liberty del primo ‘900, è l’anima fascista che Varese ostenta nei palazzi del Ventennio. È il volto altero, esibizionistico e sfrontato del regime, cui la città sacrificò negli anni Trenta buona parte della propria storia edilizia. Ne parla Serena Contini nell’articolo La monumentalità architettonica e figurativa a Varese nel Ventennio: il Palazzo del Littorio e gli affreschi di Giuseppe Montanari, che fornisce l’immagine di copertina all’edizione 2018 di Terra e Gente a cura della Comunità montana valli del Verbano.
Dopo la nomina a capoluogo di provincia il 6 dicembre 1926, Varese vede aumentare il proprio territorio con l’aggiunta di nove Comuni (solo Induno tornerà autonomo con un referendum nel 1950). La città accresce di 13.301 unità i suoi 28.278 abitanti e pensa ad un piano regolatore per sostituire l’agglomerato storico di piazza Porcari con nuovi edifici e una maestosa piazza. Il concorso è vinto dall’ingegnere romano Mario Loreti che – con un’imponente opera di demolizione di immobili confiscati – costruisce la nuova piazza Monte Grappa con le sedi dell’Inps e della Ras, l’edificio delle corporazioni (oggi Camera di commercio), la Torre Littoria, il palazzo Castiglioni e la fontana.
Loreti è lo stesso professionista che pochi anni prima ha ideato l’edificio che identifica il regime a Varese, il palazzo della federazione provinciale fascista o del Littorio, attuale sede della Questura, inaugurato il 7 marzo 1933 con la poderosa torre dell’orologio, la campana con l’effigie del duce e i nomi dei caduti per la rivoluzione. L’incarico di abbellire gli interni viene dato al pittore marchigiano Giuseppe Montanari, formatosi a Brera e consacrato dalla Biennale di Venezia nel 1924, trasferitosi a Varese alla fine della Grande Guerra per amore di Nina Ghiringhelli, sorella di un compagno d’armi. Montanari decorerà anche l’attuale Camera di commercio in piazza Monte Grappa, la Casa del mutilato e il Teatro Impero.
Curiosamente il nuovo palazzo Littorio ospita la redazione della Cronaca Prealpina e il giornalista militante Mario Manuli parla del pittore in questi termini: “La rinascita dell’arte di affrescare, voluta dal Regime fascista per dare nuova luce a una gloria italianissima, ha trovato in Giuseppe Montanari un gagliardo artista che ha saputo celebrare degnamente, sulla vastità delle pareti, la genesi, gli sviluppi e le glorie della Rivoluzione mussoliniana”. E aggiunge a proposito degli affreschi nella sala del Direttorio e nell’ufficio del questore: “Salgono nel cielo sereno i canti che inneggiano alla giovinezza, mentre i gagliardetti come tante fiamme nere, sorgono e si moltiplicano e vanno innanzi, primavera della Patria, seguendo il Duce e le aquile di Roma per riconquistare l’impero”.
Commenta Serena Contini: “Alla fine degli anni Trenta Varese non è più – o non è solo – la città del Liberty, luogo di villeggiatura dei milanesi benestanti, perché aveva acquisito un’impronta nuova generata dalle costruzioni recenti che l’avevano rinnovata nel suo assetto urbano. Da piazza Monte Grappa, a raggiera, volgendo lo sguardo in ogni direzione si potevano ammirare edifici di pubblica utilità, in stile razionale, nuove vie, infrastrutture che conferivano alla città-giardino la piena dignità di capoluogo di provincia”.
Un articolo molto interessante. Tra i testi contenuti nell’edizione 2018 di Terra e Gente, Pierluigi Piano descrive le “vivande alla lombarda” citate nell’Opera di Bartolomeo Scappi, lo chef rinascimentale di Dumenza sulla cui origine fece luce, dopo anni di equivoci e d’interpretazioni errate, lo storico luinese Pierangelo Frigerio. Barbara Pezzoni racconta l’epidemia di “spagnola” che nel biennio 1918-1919 causò cinquanta milioni di morti nel mondo, colpì pesantemente l’Italia e non risparmiò la zona del Verbano decimando la famiglia di Piero Chiara (morirono il nonno materno e due zie). Il romanziere descrisse i fantasiosi rimedi precauzionali cui la madre lo sottopose, a metà strada fra la devozione popolare e la superstizione, facendogli indossare lo scapolare della Madonna del Carmine e appendere al collo un sacchetto di canfora.
Enzo Laforgia compie un curioso viaggio tra le canzoni della Grande Guerra. Rivela che la Leggenda del Piave prediletta dal generale Diaz e popolare ancora oggi, non la intonavano i soldati in partenza per il fronte ma fu composta da un musicista napoletano a guerra conclusa, nel giugno del 1918. Stefania Peregalli, Sara Bodini e Caroline Vezzani spiegano come “leggere l’arte” nella biblioteca del museo Bodini e Gianni Pozzi ricostruisce la vita e le opere di don Giannino Valassina, parroco, scrittore e poeta di Gemonio. Carlo Cattaneo e Francesca Boldrini censiscono le fornaci in Valcuvia e Valtravaglia, antichi luoghi in cui si cuocevano le pietre calcaree per ottenere la calce, poi utilizzata in mille usi civili.
Le vicende storiche di villa Menotti a Luino si ricollegano nello studio di Federico Crimi all’avventuroso destino delle statue di Giacomo Leopardi scolpite dal varesino Odoardo Tabacchi. L’esperta di scienze dei beni culturali Tiziana Zanetti affronta il delicato tema della tutela dei valori storici, estetici e culturali che rappresentano il patrimonio collettivo del territorio locale e nazionale. Un tema trattato già dall’ordinamento giuridico dell’antica Roma e regolamentato dall’art. 9 della Costituzione italiana. Gli altri contributi, da non perdere, sono di Dino Azzalin, Alberto Brambilla, Alice Patarino, Emilio Rossi, Luigi Giavini, Maurizio Badiali, Carlo Banfi e Oliviero Baroni.
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