Filosofo e saggista tedesco, critico d’arte, d’origine ebraica, Walter Benjamin (1892-1940) si segnala ben presto per l’analisi dei significati filosofici dell’esperienza artistica.
Nato a Berlino, si laurea a Berna nel 1918 con una tesi sul concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco. Nella sua formazione culturale intervengono aspetti della filosofia romantica, influssi del pensiero di Nietzsche, il materialismo marxista, la spiritualità ebraica.
L’interesse per la mistica ebraica e per l’arte ebraica gli è stato suscitato sin dalla giovinezza grazie all’amico Gershom Scholem, onde un’ermeneutica fondata sul commento-interpretazione di testi scritturali e talmudici.
Nel 1916 pubblica un saggio “Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini “, nel 1923 l’opera “Il compito del traduttore”.Nel saggio del 1924-1925 “Le affinità elettive di Goethe”già sono presenti i motivi peculiari del pessimismo estetico dell’autore in merito all’impossibilità di conciliare arte e mondo e al divario tra il disordine del mondo e la falsa autonomia dell’opera.
Lo scritto forse più significativo è “Il dramma barocco tedesco”, edito nel 1928, ma già abbozzato nel 1916. Qui l’attenzione si incentra sul Trauerspiel secentesco, rappresentazione luttuosa, in cui la storia è contemplata come destino tragico dell’uomo. L’opera, redatta in funzione del conseguimento della libera docenza, è rifiutata in quanto non attinente in modo specifico ad alcuna disciplina universitaria.
Qui si individua una forma nuova e peculiare dell’esposizione filosofica, in quanto si assume a metodo la composizione a mosaico; il mosaico, arte allegorica per eccellenza, è il modello della sua scrittura. Le idee sono rappresentate in configurazione di concetti, in queste costellazioni unificando critica filosofica e trattato allegorico. È il concetto di allegoria che fa l’unità dell’opera, arte allegorica per eccellenza è la rappresentazione barocca.
Il dramma barocco è un’idea. L’idea del dramma si pone in alternativa a un raggio classico del simbolo, come unità di significato e di realtà: si configura come esplosione del simbolico nell’insanabile perdita di senso che segna la modernità e che mantiene la lacerazione tra finito e infinito.
Il simbolismo pieno e compiuto dei classici si dissolve nel frammento, la storia appare come decadimento e cumulo di macerie. Viene meno il senso progressivo e teologico della storia e si verifica il distacco dall’unità originaria, che è grazia e linguaggio, corrispondenza perfetta e mistica tra parole e cose. C’è un malinconico ripiegamento sul frammento, che rimane l’unica forma possibile di arte. Qui si condensa la modernità.
Impossibile riconciliare in una totalità sistematica una realtà frammentaria. L’arte è allora quell’ordine creativo e fittizio, che si instaura sulle macerie della realtà ed al contempo, nel rivelarne caos e violenza, rende possibile la liberazione di quelle forze che possono emanciparla.
Nella premessa gnoseologica si precisa che il concetto e il giudizio sono strumenti di conoscenza e di dominio, che entrano in contatto solo col fenomenico, mentre l’oggetto nella sua totalità e unità è inaccessibile all’intelletto e la verità è inaccessibile alla pretesa intuizione (in polemica esplicita con la filosofia della vita e la fenomenologia post-husserliana, qui l’influsso del neokantismo).
Al fondo è la concezione di un’originaria corrispondenza perfetta tra le cose e la parola divina, scomparsa da quando gli uomini hanno cominciato a denominarle nella loro lingua. La dimensione perduta di quel discorso originario va recuperata decodificando le approssimazioni umane attraverso una ermeneutica che le componga in una nuova rete di approssimazioni. Si tratta di un metodo di conoscenza per composizione o per ricomposizione.
L’apparato erudito che concerne “Il dramma barocco”è accuratissimo. Agli inizi degli anni Trenta Benjamin collabora con la Rivista per la ricerca sociale (Scuola di Francoforte), è amico di Adorno, rifiuta la logica mercantile della società capitalistica e del pensiero positivista, nella convinzione che la filosofia può e deve svolgere essenzialmente un ruolo critico.
Nel 1931 compare la “Piccola storia della fotografia”, in cui la prossimità dell’obiettivo fotografico viene a superare la sacrale presa di distanza dall’opera, che è necessaria alla sua contemplazione estetica; l’infinita riproducibilità dell’opera d’arte non è prodotta da fattori esterni, è insita nella natura stessa della fotografia. Bisogna perciò ridefinire l’arte secondo i nuovi caratteri imposti dall’età della tecnica.
Nel 1936, a miglior definizione del problema, Benjamin pubblica “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Nella società industriale l’opera d’arte ha completamente perduto il suo senso originario. È morta l’arte nata, legata quasi sempre alle funzioni religiose, al sacro. Colla riproducibilità perde la sua aura, quell’alone di eccezionalità quasi magica delle origini.
Prodotto industriale per eccellenza è il cinema, forma d’arte precipua del Novecento. L’unità della recitazione, il montaggio, la costruzione negli studi, è frutto di un lavoro a posteriori. Invece nel teatro l’attore è sul palcoscenico e in tempo reale recita e interagisce col pubblico.
È entrata in crisi anche la pittura a causa della fotografia e delle mostre (esperienza qualitativamente diversa dalla visione dell’arte all’interno delle chiese in connessione coi riti, nulla di sacrale). Tramonta così la funzione contemplativa dell’arte, vengono meno il raccoglimento, l’introspezione. Vi è consumo di occasioni e di immagini, l’arte è mercificazione. La qualità magico-rituale dell’opera d’arte è sostituita dal suo valore espositivo, di esibizione per tutti e accessibile a tutti. Bisogna studiare l’arte materialisticamente, analizzare le tecniche produttive e le modalità d’offerta al pubblico e di fruizione.
La ricezione estetica avviene ora nella rapidità e nella distrazione (il pubblico è un esaminatore distratto, mosso dalla ricerca del contatto diretto). Il fascismo persegue l’estetizzazione della politica (vedi l’esaltazione futurista della guerra), ma anche nel comunismo si verifica la politicizzazione dell’arte.
Anche Horkheimer in “Arte nuova e cultura di massa”prende in esame preoccupato il fenomeno del tempo libero diretto e controllato dai mezzi di comunicazione di massa, i luoghi dello spettacolo, gli stadi sportivi.
Si tratta di una cultura banale, insulsa, di contro a un quadro come Guernica o a romanzi come quelli di Joyce, in cui si esprimono al massimo livello la follia, la dissociazione dell’umanità contemporanea. La barbarie culturale introduce alla barbarie incombente in campo politico e sociale.
Benjamin rivolge la sua attenzione anche al romanzo popolare, al feuilleton, alla letteratura per l’infanzia. Non intende chiudersi in un atteggiamento snobistico, elitario.Del 1940 sono le “Tesi di filosofia della storia”: la sua visione è opposta a quella di Hegel, non contempla un processo finalistico, un progresso di necessità rispetto al passato.
La parabola di vita di Benjamin, autore di coraggiose pagine di critica militante e d’avanguardia, si chiude con la morte per suicidio nel 1940 a Fort Bou alla frontiera franco-spagnola in attesa di un lasciapassare per fuggire dalla Francia nazificata.
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