Non possiamo più fare a meno dei social. Sia noi comuni mortali, sia i politici.
Ricorre in questi giorni il 15mo anniversario della nascita di Facebook ma ancora mancano valide risposte ai dubbi sugli effetti che questi strumenti hanno sulle nostre vite e sulla società.
Intanto i social ci inondano di post di amici e conoscenti, e di amici degli amici, con le fotografie degli svariati momenti del loro quotidiano.
In pole position nelle esibizioni in rete sta il cibo, diversamente coniugato: il piatto che abbiamo preparato, consumato, o che consumeremo in compagnia di altri amici.
Un Ministro – buona forchetta – “posta” foto di cibo che, per sua stessa ammissione, ha appena “ingollato”. Non sono piatti di chef pluristellati, e neppure, deliziose a vedersi, composizioni tipiche della nouvelle cuisine.
Appartengono alla ruspante cucina regionale, esibiscono porzioni abbondanti quando non debordanti, sono corredati di frasi del tipo “oggi alle 14.10 ho mangiato …”. E da affermazioni che sembrerebbero suonare da giustificazione per l’eccesso evidente, mentre in realtà affermano: “Non sono un mangiatore professionista, ma un ragazzo normale con un appetito anormale”.
In un paese di obesità crescente, soprattutto infantile, lo spettacolo desta qualche preoccupazione, non solo nei nutrizionisti, perché sappiamo che bambini e adolescenti sono affetti dal desiderio di assomigliare ai loro idoli, politici, sportivi o musicali.
Pensiamo ai testimonial, che sono stati scelti tra personaggi famosi tra il pubblico, per favorire il processo di imitazione delle buone pratiche: il testimonial suggerisce ”quel” buon comportamento che rende migliori noi e la società: bere tanta acqua, differenziare i rifiuti, guidare sobri, non praticare il cyberbullismo.
Il Capitano si propone come modello con il messaggio: “Mangiate, mangiate qualunque cosa vi piaccia, quando e quanto volete, mangiate a ogni ora. Siamo in sovrappeso? Il successo e la notorietà arrivano lo stesso, anzi”.
Nessuno contesta i piatti della tradizione che vengono postati all’ora di pranzo, a parte la pubblicità al ragù preconfezionato di noto marchio, a parte i bordi dei piatti sporchi, a parte le quantità esagerate. Buone le lenticchie con il cotechino, meno i panini multipiano, gli spiedini chilometrici, le porzioni pantagrueliche di ravioli al Castelmagno.
Gioioso e tanto infantile l’atto di azzannare fette (tante) di pane e nutella.
Il tutto in un viluppo di carboidrati e proteine.
Si ha l’impressione che la finalità comunicativa prevalente sia quella di proporsi come “uno di noi”, al bando le leziose raffinatezze! Qui c’è un giovane uomo che è davvero quello che appare, che pensa e si propone come un uomo autentico.
Il Capitano comunica: “Non faccio alcuno sforzo per contenermi, chi se ne frega della linea (e della salute), frequento le osterie e le paninoteche, non certo le biblioteche e le conferenze”.
C’è un altro aspetto, meno evidente ma altrettanto significativo.
La bulimia alimentare del Capitano, così sbandierata sui social e esaltata come un pregio, è strettamente legata all’altra bulimia, quella linguistica. Che si manifesta con slogan ripetitivi e martellanti, invasivi e coloriti al pari del piatto di spaghetti al ragù.
Balza all’occhio l‘analogia tra l’atto del riempire materialmente la pancia e il linguaggio che parla alla pancia del Paese: una pancia da riempire come capita in un perenne gozzovigliare materiale e metaforico.
Come non rimpiangere i tempi dei politici del passato, fin troppo seri, fin troppo grigi, così misurati nelle parole e nell’abbigliamento, con un eloquio sempre selezionato.
Ecco, che cosa vorrei riapparire, tra le tante cose che mi mancano: la sobrietà.
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