Sottovalutare il cittadino è un errore gravissimo, perché in ognuno c’è una piccola parte di mondo, un mondo che si anima, si prodiga, rispetta, impara, vuol conoscere, lavorare, studiare, capire, un mondo che si sente protagonista della storia che lo riguarda e che vuole partecipare con orgoglio e con fierezza alla costruzione del sistema in cui è storicamente inserito. In questi anni abbiamo assistito a uno strano gioco in cui la rappresentatività si è spesso ridotta a subalternità, da una parte si eleva il cittadino in prossimità delle elezioni, poi lo si demolisce, direttamente o indirettamente, come se la libertà dovesse procedere a senso unico, dimenticando che per la Costituzione italiana il cittadino non è uno strumento, ma il protagonista della vita democratica del paese. Il diritto di voto è un atto solenne di democrazia parlamentare, il riconoscimento a chi, della Costituzione e della democrazia, è il vero e legittimo garante. Sottovalutarne il diritto, confinarlo in ruoli di secondo piano, metterne in discussione l’affidabilità, significa mancare di rispetto a quella legalità democratica di cui il cittadino è autorevole portavoce. La politica è espressione della volontà popolare e come tale ha il dovere di non mancare mai di rispetto a chi l’ha fondata, difesa, protetta, sostenuta e promossa dopo gli anni bui di ogni forma di totalitarismo. In questi anni di crisi ci siamo resi conto che le istituzioni, una volta investite del potere che hanno ricevuto, ne fanno spesso un uso personalizzato, come se improvvisamente, un volta raggiunto lo scopo, il resto fosse tranquillamente confutabile, modificabile, assimilabile e persino abrogabile. Il paese ha un immenso bisogno di coesione, di affondare le radici nella sua storia, in quell’humus popolare che è fonte viva della sua storia democratica.
VALORIZZARE
Uno degli errori fondamentali che il potere commette è quello di non valorizzare le persone, di non dare loro la possibilità di dimostrare quello che sono e quello che valgono. Troppo spesso si fa piazza pulita di ciò che arbitrariamente definiamo non adatto, insufficiente, incapace. Troppo spesso le persone non vengono trattate come persone, ma come strumenti di un’ arroganza, in funzione della quale costruiamo i nostri personalismi e i nostri egoismi. È dimenticando gli altri che dimentichiamo noi stessi, quel patrimonio di umanità che potrebbe cambiare il volto della storia. Da molto tempo gli uomini si combattono in nome dell’utopia, lottano per supremazie che non esistono, dimenticando che l’armonia è il frutto di un’equa distribuzione delle risorse, di una coesione sociale che parte dalla valorizzazione delle persone, dalla loro volontà, dal loro desiderio di essere sempre di più parte viva di quella realtà in cui abbiamo l’onore di poter vivere. La storia umana è stata troppo spesso storia di egoismi, predazioni, devastazioni, ruberie, colonizzazioni, destabilizzazioni, per troppo tempo c’è stato chi ha voluto essere più dell’altro prevaricandolo, combattendolo, privandolo della sua dignità, relegandolo al ruolo di sottomesso. Oggi l’umanità si guarda allo specchio e si rende conto che ci sono mondi privati della loro dignità che si fanno avanti, bussano alle porte delle grandi democrazie capitaliste, per chiedere di essere ammessi al banchetto della dignità umana. Lo fanno con quello di cui dispongono, sfidando ancora una volta le vicissitudini di un destino avverso, ma con la fede di chi crede che il mondo non sia solo quello delle predazioni, ma anche di chi guarda al prossimo con il pensiero rivolto a cosa sia possibile fare per rendergli meno angosciante la vita. Valorizzare è un passo decisivo per riconsegnare l’identità a coloro ai quali è stata sottratta, per dimostrare che esiste anche un’altra storia, quella che depone le rivendicazioni, che cancella l’odio e il rancore, per fare in modo che tutti abbiano la possibilità di viverla e insegnarla con grande passione e con grande fede in una condizione di vita più amabile, per tutti.
CREDERE
Nessuno ci ha mai spiegato abbastanza il significato profondo di credere, nessuno forse, si è mai preoccupato a sufficienza di quale ruolo potesse avere la fede nella nostra vita. L’abbiamo conosciuta attraverso le parole di una madre, di un padre, di un sacerdote, di una catechista, ma spesso non siamo riusciti ad applicarla fuori dal contesto religioso, nessuno forse ci ha fatto sapere abbastanza quanto fosse importante, ad esempio, credere nel lavoro, nelle sue virtù terapeutiche, psicologiche, pedagogiche, sociologiche, nella sua capacità di creare dignità, di rafforzare il senso della vita, di aprire l’intelligenza a nuovi percorsi, di permettere allo spirito umano di farsi strada tra materialismi e sopraffazioni. Credere in quello che si fa e farlo bene, credere nelle leggi dello Stato, credere nella pace e nell’amore, credere nell’unione e nella fratellanza, credere nella collaborazione e nella coesione, credere nella famiglia e nella società civile, sono tutte fedi che aprono la mente e il cuore a visioni prossime più forti, più capaci di trasformare e di costruire. Ogni fede, se vissuta nella sua vocazione comunitaria, può creare nuovi impulsi, può rafforzare l’entusiasmo, la voglia di fare, di dare, di essere, può ridare un senso alle cose che facciamo e fare in modo di farle sempre meglio, con la convinzione che tutto si possa sempre cambiare per rafforzare la causa del bene comune. Avere fede nella vita, ad esempio, significa prenderne coscienza. Chi prende coscienza non agisce sulla base di istinti, ma lo fa sapendo quale sia il motivo e quale il fine del dono che ha ricevuto, lo fa proprio e si attiva, lasciando via libera a quell’ interazione spirituale, ben presente nella natura umana e pronta sempre a offrire il suo contributo di praticità e di concretezza.
ANIMARE E RIANIMARE
Sono parole che si perdono per strada, che fanno fatica a farsi largo nel labirinto di neologismi e inglesismi che invadono quasi quotidianamente la nostra lingua, il nostro modo di essere, il nostro modo di lavorare, la nostra intimità, eppure nell’animazione e nella rianimazione c’è proprio lei, quell’anima che si candida come guida illustre della nostra vita, soprattutto quando ci sentiamo compressi e un po’ imprigionati da quei piaceri correnti che non creano pathos, atarassia, inclusione, ma che lasciano spazi irrisolti e domande senza risposte. Oggi è difficile che qualcuno ci parli dell’anima, può capitare che lo faccia il professore di filosofia quando approccia figure positivamente animate come Socrate, Aristotele, Platone, oppure il sacerdote quando in vena di teoria e di teologia riscopre la bellezza di quel logos che ha respirato nella sua ascesa, ma nel mondo della tecnologia apritutto diventa oltremodo difficile pensare che la parte più bella sia ancora in un’anima tutta da scoprire, amabilmente adagiata nelle pieghe più recondite del nostro io, in attesa che qualcuno si ricordi di lei, dell’importanza che riveste nell’ identificazione di una natura umana spesso sospesa o contratta tra materia e spirito, tra pensiero e azione, tra anima e corpo, movimento e immobilismo, passività e dinamismo. Viviamo un tempo in cui il motivo dominante è determinato dall’euro, una moneta che genera terrore, angoscia, debilitazione e che viene spesso usata come spada per recidere le speranze della gente comune, quella che si sveglia al mattino e parte per il suo quotidiano viaggio verso la ricerca della felicità. Essere schiavi del denaro e delle sue degenerazioni debilita la sfera istituzionale delle emozioni, la voglia di amare e di scoprire, reprime gli entusiasmi, sviluppa pessimismi, non permette all’interiorità di emergere, di dimostrare che la vita non è solo ciò che appare, che si può toccare con mano, ma ben altro. Nel pessimismo c’è sempre una piccola dose di ottimismo, qualcosa che la furbizia umana conserva, da applicare nei momenti peggiori, quelli in cui sembra che non ci sia più speranza. Forse siamo nella fase di recupero, quella che la medicina corrente definisce della rianimazione, in cui il battito si rifà vivo e il cuore riprende a pulsare, riattivando la sua naturale propensione alla vita. Dopo l’esilio forzato, ecco che l’anima si riaffaccia con la sua spinta inclusiva, con la sua voglia di determinare e determinarsi, con quella carica di slancio vitale che plasma la vita, offrendole nuove possibilità di riscatto. È in questi momenti che si rifà viva l’arte con le sue spinte creative, è così che la libertà torna a essere padrona di se stessa, sicura che non basti urlare per sentirsi vivi, inquinare per sfidare la bontà del prossimo, è nella libertà rianimata che il senso della vita si riconosce, aprendo la via al cammino di una coscienza rinnovata nella consapevolezza e nell’attenzione alle priorità. Animare e rianimare è un po’ come voler confermare che la vita offre sempre una via più sicura, per rimettere ordine dove il disordine ha creato vuoti rimasti sospesi. Riappropriarsi dell’anima è un po’ come voler riaffermare che l’uomo non è quello delle caverne, rude, impietoso e malvagio, ma porta ancora dentro di sé, nonostante tutto, la forza di un seme che, se ben coltivato, può restituire al mondo la sua dimensione umana, andando ben oltre la linea immaginaria dell’infinito.
DIALOGARE
Il dialogo rompe il regno del monologo, apre le porte di una democrazia partecipativa che s’identifica nella forma del colloquio pluralista, teso alla costruzione di una verità condivisa e, proprio perché democratica, messa continuamente in discussione, come affermava Socrate nella sua “pedagogia del pensiero”. Il dialogo esce dai confini del confronto autarchico e violento, si amplia e si dilata, aprendosi a una collaborazione identificativa della realtà, in cui ciascuno esprime il proprio punto di vista nel rispetto di quello dell’altro. Dialogare è unirsi in uno sforzo coesivo dove la diversità non si arrocca, non diventa muro, ma sostanza generativa di nuovi approdi, ricerca comune, riconoscimento, riflessione, trasmissione e ricerca. Il dialogo è il fondamento di una comunicazione attiva e solidale, che tende alla valorizzazione della persona e alla formazione di verità sempre più ampie e condivise. È un grande strumento di conoscenza e di affermazione, di costruzione di itinerari democratici innovativi, fondati sulla forza associativa del confronto e sul costante superamento di quell’antitesi che sbarra spesso la strada, impedendo all’essere umano di raggiungere la sua tanto sospirata sintesi. È nella compostezza logica e analogica del dialogo che la fiducia riprende il suo posto e si propone come soluzione ai mali che affliggono quella società delle comunicazioni sbagliate, da cui in alcuni momenti sembra quasi impossibile risorgere.
RISPETTARE
È uno dei punti di forza del sistema educativo, la conditio sine qua non, per adire a un paese cosciente dei propri diritti e dei propri doveri, un paese che conosca perfettamente il significato di cosa significhi vivere la democrazia e rispettarne la Costituzione, partecipare e collaborare, adottare la lealtà e l’onestà come modalità di cambiamento. Da un po’ di anni a questa parte il sistema educativo italiano ha rotto gli ormeggi e naviga sprovvisto di bussola in acque tempestose, incapace di riappropriarsi della giusta identità, quella che restituisce legittimazione e autorità ai ruoli, alle figure, all’autorevolezza, alla capacità di saper riconoscere quale sia il confine tra ciò che è possibile e ciò che invece non lo è per ragioni di carattere etico, morale, naturale. Il senso morale è quasi sparito completamente e chi ne parla viene tacciato di essere un retrogrado, un superato, uno che non sa adeguarsi, che non vuole entrare a far parte del conservatorismo di parte, quello che non molla il potere e lotta con tutte le sue carte in campo per destabilizzare, detronizzare, defenestrare persino chi ha ricevuto l’ imprimatur governativo dalla somma autorità costituzionale, il governo. Nell’orgia compulsiva in cui si dibatte ciò che resta della tanto declamata democrazia, ognuno fa e disfa sbarazzandosi delle ultime colate di coerenza e di coesione, liberandosi di tutto quello che può costituire opposizione all’ arroganza di un potere che ha perso per strada il suo diritto/dovere alla disciplina e alla verità. Tutto si muove sull’onda di ciò che fa comodo, di ciò che piace, come se tutto fosse diventata una torta da spartire, non lasciando neppure le briciole a chi non ha nulla e muore di fame. Rispettare, chi? E che cosa? Forse sarebbe estremamente utile fermarsi e fare un profondo esame di coscienza, una forma antica ma sempre attuale di ritornare in possesso di valori troppo prematuramente abbandonati per una terra promessa senza ritorno. Una società che manca di rispetto, che non sa più accogliere il giusto diritto del suo popolo, che lo mette in discussione colpendo i suoi rappresentanti, dimostra di non avere le carte in regola per poter definirsi simbolo di un sistema che ha un assoluto bisogno di convergenze condivise, di collaborazioni super partes, di ritrovare quello spirito profondo che va ben oltre i colori, le differenze, le distanze geografiche, storiche e culturali in genere. Forse il rispetto di oggi è in parte uguale a quello di ieri, con la differenza che ha bisogno di una marcia in più per capire che la storia non è qualcosa di statico, ma di assolutamente dinamico, qualcosa che muta repentinamente, che ha bisogno di sussidi e di partecipazioni corali, di quella straordinaria italianità di cui siamo stati testimoni attivi e osservatori in quel passato che ci ha conferito la possibilità di esserne temporaneamente protagonisti. Una democrazia che non sa rispettare è una democrazia che dichiara apertamente il proprio fallimento. Per questo il potere ha una grande missione educativa e quindi sociale, quella di facilitare il passaggio di quelle norme e di quelle regole che sono la struttura portante della democrazia stessa, senza la quale ogni fuga in avanti diventa un espediente per tentare di mantenere in piedi un potere logoro e ormai privo di progettualità reale.
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