Federico Fellini, considerato uno dei più grandi registi cinematografici italiani – forse il più grande –, era un poeta, e come tale visionario e profetico. Nella sua vasta opera ha disegnato e raccontato il suo passato di ragazzo di provincia, i disagi e le speranze dell’Italietta del secondo Dopoguerra (pensiamo ai Vitelloni) e del boom economico (la Dolce vita).
Nel film Amarcord (grazie al quale conquistò il suo quarto Oscar nel ‘75: miglior film straniero), film sul passato (anche fascista) di un borgo di provincia, c’è un personaggio centrale, la Gradisca, magistralmente interpretata da Magali Noël. Non è un nome scelto a caso – Gradisca – e ne spieghiamo o ricordiamo il perché.
Si racconta che nella Rimini degli anni Trenta (ma nel film il nome della città non è mai esplicitamente citato) vivesse una signora generosa e prosperosa. Nell’occasione della visita in città di un nobile di un illustre casato – nel quale qualcuno volle addirittura intravedere il principe Umberto II di Savoia, nonostante le dicerie sui suoi gusti sessuali piuttosto ambigui – la signora si fece trovare in deshabillé nella camera del Grand Hotel dove alloggiava l’uomo, coricata nel talamo. Quando il nobile entrò, sollevò le coperte e mostrando le sue forme prosperose e le cosce ben tornite disse: “Gradisca, signor Principe!”.
Si afferma che la Gradisca – al cui nome alcuni albergatori del capoluogo romagnolo oggi hanno intitolato fastosi hotel di Marina Centro – fu un personaggio realmente esistito in città; come la Volpina, prostituta di basso lignaggio, un po’ matta, che bazzicava la spiaggia; come il venditore di bruscolini; come il professore studioso di storia locale che nel film fa da cicerone; come il motociclista che scorrazza all’improvviso attorno alle “fogheracce” (la versione riminese del varesino falò di sant’Antonio, che però a Rimini si accende la vigilia del giorno di san Giuseppe); come la prosperosissima tabaccaia e tante altre figure che fanno passerella…
L’offerta di sé di Gradisca al Principe, probabilmente, voleva essere nell’idea di Fellini – cineasta, poeta e profeta – una nota rispettosa di accoglienza. Ma anche una sottolineatura di ridicolo nei confronti di un regime che molto si basava sulle apparenze e sulla superficialità. Allo stesso modo in cui, sempre nel film Amarcord, si indugia sulla visita in città di un gerarca fascista: questi entra vestito di tutto punto, camicia nera e stivaloni, in un bar del centro, si avvicina al tavolo del biliardo dove stanno giocando alcuni giovanotti; mani ai fianchi, gomiti larghi, molleggiando sulle gambe come faceva il Duce dal balcone di Palazzo Venezia, dà un’occhiata al tappeto verde dove corrono le biglie e dichiara con inusitata competenza. “Palla molto difficile!”.
S’è scritto e detto che tali interventi felliniani, che hanno suscitato tanto ridicolo su un regime in altre maniere tragico e funesto per il Paese, abbiano nuociuto al regime stesso più di decine di libri di storia. Tale è la forza della presa in giro. E della caricatura.
Senza voler fare del facile psicologismo, si può pensare oggi al gesto naïf della generosa Gradisca come ai selfie frequentemente richiesti da signori, ragazze e ragazzi al potente di turno. Là dove lo scambio reciproco dell’immagine, in mancanza d’altro, diventa quasi un connubio, e più ben della richiesta riverente di un autografo. Come a dire: insieme con te ci siamo anche noi, qui, fisicamente presenti. Arrivando fino al baciamano “affettuoso” di qualche giorno fa a Afragola, nei confronti di un premier politico, stile Don Vito Corleone. E l’interfaccia del selfie sono le divise o le felpe o le casacche indossate dal potente che si fa più vicino, che si presenta al volgo come “v’un di nòstar”.
Così vanno adesso le questioni del mondo. È la politica degli esperti delle sale di biliardo e delle palle molto difficili da giocare. Sono queste le espressioni e le manifestazioni che ci fanno sentire più uniti: i selfie, i sorrisi acquiescenti, i baciamano, le pacche sulle spalle, le divise, le frasi banali. Come in una grande osteria. E poi, naturalmente, il voto nell’urna, o il twitt, al momento massima espressione della democrazia.
Che poi le cose da fare siano ben diverse, magari ancora più difficili e serie e complicate, piene di dubbi, di prove e controprove, di risposte e di risultati è tutta un’altra storia.
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