Dove avete festeggiato il Natale e il Capodanno? In sala, in soggiorno, in cucina, in taverna, in veranda, nell’open-space … Nessuno, ci scommetto, ha apparecchiato e mangiato in tinello.
Infatti, chi userebbe oggi questa parola? Eppure ci abbiamo pranzato e cenato per decenni, in quella stanza accogliente e comoda, col tavolo, le sedie, il sofà, il grammofono e la radio, e magari la macchina da cucire nell’angolo più luminoso. La sala, se c’era, serviva solo per le ricorrenze e gli inviti importanti. La cucina era “riserva” di chi stava ai fornelli, nebbiosa di fumo e odori vari: non c’era spazio se non per cucinare e rigovernare.
Perciò, si mangiava in tinello.
Le mamme – la maggior parte – non lavoravano, l’aiuto domestico non era ancora un lusso, e gli orari erano compatibili con un desinare tranquillo e curato. Intanto, la tovaglia era di stoffa, così come tovaglioli e porta tovaglioli; le posate erano quattro o cinque, forchetta coltello cucchiaio forchettina e coltellino. Ai piatti fondi e piani si sostituiva la scodella, se il piatto forte era minestrone o polenta E non si portavano certo in tavola pentola e tegame, ma una capace zuppiera per il primo, con tanto di coperchio – se era brodoso – o di molle – per gli spaghetti -. Secondo e contorno si servivano nel piatto grande; e se si trattava di pollo, o gallina, o fagiano, non si poteva fare a meno del trinciapolli per fare le giuste porzioni. Il parmigiano stava nella formaggera, la saliera aveva il suo microscopico cucchiaino, lo zucchero si usava in zollette – così non si sprecava -. Il caffè “veniva su” nella napoletana, un aggeggio infernale che si doveva capovolgere sul fuoco al momento giusto, ma che da noi venne sostituito immediatamente al primo apparire della moka “coi baffi”.
Dopo la pietanza, si tiravano fuori paletta e spazzolino e si spazzavano dalla tovaglia tutte le briciole del pane, per lo meno quando c’erano ospiti: così nessuno si sarebbe sognato di fare palline con la mollica, o di giocare con le crosticine. Nella bacinella dell’acqua per la frutta, invece, era sempre infilato un cucchiaio, “per non fare il bidet”, come raccontano dicesse mio suocero.
E chi non ricorda il frizzare dell’acqua Idriz o Idrolitina? Per farla, ci voleva una bottiglia di vetro con chiusura assolutamente ermetica: altrimenti la seconda bustina che versavi in acqua dopo la prima, innocua, scatenava un ribollire di anidride carbonica capace di annaffiare tutta la tavola, se non chiudevi il tappo con sperimentata destrezza.
Il vino invece arrivava nel fiasco di vetro soffiato verde scuro, con la sua forma sorridente e panciuta, abbracciato dalla paglia che lo difendeva e lo teneva in piedi. Appena aperto, la prima operazione delicatissima era togliere con un ciuffetto di stoppa il velo d’olio che proteggeva il vino: guai a lasciarne qualche goccio, ma guai anche a esagerare con la stoppa facendola tingere di rosso, sprecando così un sorso di quel ben di Dio… Il colpevole, allora, si guardava in giro scusandosi, e la nonna scuoteva la testa sospirando.
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