Jair Bolsonaro è ufficialmente entrato in carica come 38° presidente della Federazione degli Stati Brasiliani dopo l’indipendenza dal Portogallo del 1822, eletto a fine ottobre raccogliendo la maggioranza assoluta dei voti, ma anche l’unanime sdegno della stampa “progressista”.
Il personaggio ha tutte le caratteristiche per non piacere, ma è interessante cercare di approfondire i perché di questo successo dopo oltre un quindicennio di presidenza del “Partito dei lavoratori” prima con Luiz Lula Da Silva poi con il suo braccio destro Dilma Rousseff.
Entrambi i presidenti sono stati incriminati (Lula anche arrestato) per manifesta corruzione e nelle incriminazioni presto si accoderà – stando alla stampa brasiliana – anche il vice-presidente della Rousseff, Michel Temer (nominato nel 2011, ma non eletto), che era rimasto in carica come presidente pro tempore in vista delle elezioni dal 31 agosto 2016, quando la Rousseff fu appunto costretta a dimettersi travolta dallo scandalo legato alla società petrolifera pubblica Petrobras.
Da notare che ad ottobre erano in palio anche i seggi di 13 governatorati di altrettanti stati brasiliani e – di questi – 12 sono stati conquistati da esponenti anti-sinistra rivoltando completamente la situazione precedente.
Mentre Brasilia il giorno dell’insediamento era presidiata dall’esercito per timore di attentati non è un caso che il primo a congratularsi con Bolsonaro sia stato Trump: i due si somigliano molto e per l’elezione di entrambi più che le simpatie personali hanno contato l’aperta avversione degli elettori per i candidati alternativi.
In Brasile il bilancio di oltre un quindicennio di presidenza Lula – la Rousseff ne era una diretta collaboratrice – è stato giudicato fallimentare dalla gran parte dei brasiliani, con molte analogie a quello che potrebbe essere il futuro scenario italiano.
Va subito chiarito che il Brasile – federazione di 26 stati indipendenti, oltre al distretto federale di Brasilia – ha il proprio traino nel sud del paese mentre il nord è più povero e selvaggio. Si va dal mezzo milione di abitanti del Roraima, nel nord, ai 41 milioni dello stato di San Paolo, a volte con superfici immense come lo stato dell’Amazzonia grande 15 volte l’Italia ma con solo 3 milioni di residenti.
Da sempre il nord vota a sinistra, ma Lula ha sicuramente accentuato la dipendenza economica della gente dalla assistenza pubblica creando casi paradossali – il riferimento al “Reddito di cittadinanza” italiano è lampante – in cui è molto più conveniente non fare nulla e raccogliere comunque sussidi pubblici che non mettersi ufficialmente a lavorare.
Ciò ha progressivamente portato ad una spaccatura profonda con gli stati del Sud più moderni e produttivi con una vera e propria rivolta istituzionale contro Brasilia e addirittura minacce di secessione.
Non appena l’economia ha rallentato – dopo il buon sviluppo intorno agli anni ‘2000 – i problemi si sono accentuati accompagnati da una escalation delle violenze di una delinquenza che è arrivata a controllare e condizionare la vita del paese.
Questo per la corruzione endemica di tutto il sistema, ma anche per la diffusione della droga (soprattutto un povero “crack” locale che fuma i cervelli) con un’infinità di persone letteralmente accampate oggi in ogni punto delle città brasiliane o sdraiate per terra senza alcuna prospettiva.
Su questo aspetto ha avuto buon gioco Bolsonaro – di fatto appoggiato dalle forze armate – a promettere ordine, pulizia e disciplina con una richiesta che però è profondamente condivisa da una larghissima parte di opinione pubblica costretta a vivere blindata in una situazione di pericolosa insicurezza.
Chi visita oggi il Brasile resta sconcertato dal numero di poliziotti presenti nelle strade (soprattutto nelle aree turistiche) ma anche da una burocrazia inefficiente e corrotta, dai prezzi in ascesa, da un paese che sta sprofondando in una crisi profonda e per la quale molti incolpano proprio Lula e la Rousseff e le loro “non riforme” coperte solo da mero assistenzialismo.
Un paese che ha ospitato nel 2014 Olimpiadi e Mondiali di calcio – costruendo cattedrali nel deserto spesso già in rovina – ma che sopravvive solo con i crediti internazionali e per lo sterminato patrimonio (malsfruttato) di materie prime di cui ancora dispone, ma dove scuola, trasporti e sanità pubblica non funzionano tanto che chi appena può si rivolge ad assicurazioni e strutture private.
Trent’anni fa solo il 5% dei brasiliani aveva un reddito di livello europeo (tra di loro – oggi come allora – molti super ricchi), una percentuale salita oggi intorno al 30% ma con una media borghesia molto preoccupata del futuro e che – compatta – ha quindi votato il nuovo presidente.
Bolsonaro sconcerta per dichiarazioni, caratteristiche, populismo e demagogia ma rappresenta per molti brasiliani una speranza, soprattutto perché la sinistra ha certificato la propria incapacità di governo.
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