Il primo compito dell’esercizio filosofico è nominare correttamente le cose. Un evento recente ci interroga: cos’è il tifo organizzato? Molti vi vedono un’espressione di goliardia, pathos irridente e ludico. In fondo, dice l’assolutore, sono “bravi ragazzi”.
Non è tempo di alibi e sottovalutazioni. Una passione che sembra innocente può innescare anomie contagiose tra chi cerca eccitanti condivisi. La fase degenerativa più grave è data dagli “ultras”, una forma di criminalità organizzata assuefatta a violenze e vandalismi. Con il pretesto di sostenere una squadra, il tifo organizzato incontrollato aggrega comunità di teppisti, spesso l’una contro l’altra armata, come è accaduto fuori San Siro, con tragiche conseguenze.
Cittadino francese nato a Saint-Dié-des-Vosges, Kalidou Koulibaly è un eccellente calciatore e un uomo di intelligenza e sensibilità decisamente superiori alla media. Ma per i malati di tifo ha due ulteriori, persino più gravi difetti: è nero; e gioca nel Napoli non da mercenario in transito, ma da persona radicata che ricambia la città con l’impegno sociale e civile.
Questi “demeriti” sono alla base degli ululati rivolti al calciatore sotto le orecchie volutamente sorde di un arbitro debole e rinunciatario, capace di tollerare tutto tranne che un piccolo e spiegabile atto di ironia a lui diretto. A ululare non sono stati pochi esagitati, ma decine di migliaia di “spettatori”. Il teppismo non è un fatto minoritario. Gli ultras hanno fatto breccia. Dieci esagitati preoccupano. Ma un intero stadio è un allarme drammatico.
L’insano piacere di trasgredire il “buonismo” e il “politicamente corretto” (dispregiativi che dileggiano un insieme di regole di civiltà, buona educazione e rispetto per gli altri) suscita furie animalesche e istinti primordiali. È una sorta di doping dell’Ego. Il razzismo diviene un fine, un’estetica, una ragione identitaria che vale di per sé. Il ricorso al disprezzo verbale non basta più agli ultras. Per dare soddisfazione il razzismo va agito, meglio se in molti, con le garanzie di impunità che la prepotenza dei numeri consente.
Passare all’atto e varcare ogni soglia è sempre più facile. Porvi argine richiede coraggio. Mi sia permessa un’invettiva. Siamo invischiati in un circolo vizioso. Un leader si gonfia di audience e di consensi quanto più si mostra trasgressivo, ambizioso, tosto e muscolare nonostante l’apparenza di carni precocemente flaccide. Ossessionato dall’ordine, il governo parla di politiche securitarie; però sdogana la barbarizzazione dei comportamenti pubblici, mediatici e privati e fomenta l’insicurezza.
Se chi sta in alto dà cattivi esempi, in basso la lava tracima. Se chi sta in basso si nutre di “vaffa”, in alto si insedia una rappresentanza politica che ne adotta la trivialità. I politici non sono migliori delle folle: le esprimono e rispecchiano. Questa circolarità orizzontale è la conseguenza peggiore dei populismi.
Se le istituzioni nulla fanno per contrastare i razzisti nel grande stadio della politica mediatizzata, perché mai dovrebbe farlo un arbitro? Nell’Italia dell’evasione, della corruzione, degli abusi, dei condoni, delle clientele, dei parassitismi e delle omertà, i cattivi esempi, già sovrastanti in numero, sono assai più contagiosi dei buoni. Se persino i pasdaran del culto grillino, accreditatisi nel marketing elettorale come fondamentalisti robespierriani, si rivelano dei pessimi razzolatori, dei quaquaraquà affetti da ogni italico vizio, i più capitolano. Chiunque può abbandonarsi a pratiche teppistiche; la cattiva coscienza che ci accomuna ci assolverà. Tutti siamo autorizzati a fare gli apprendisti stregoni: il tifoso fa da modello a politici ed elettori.
Il razzismo agito non è solo un fine: è anche un potente strumento di eccitazione. Ogni pretesto è buono. L’epoca delle “passioni tristi” fa spazio a emozioni artificiali e “pompate”, ma forti. Le folle in preda all’esaltazione collettiva furono un motore dell’azione politica illegale e violenta dei fascismi europei. Ancor oggi il senso di onnipotenza delle folle nasce dalla falsificazione retorica del coraggio e dalla mistica della forza. Così è negli scontri fisici che sono la ragion d’essere dei “gilet gialli”.
I malati di tifo aggiungono all’eccitabilità un cinico calcolo razionale: mirano a condizionare una partita interferendo con lo stato d’animo del calciatore offeso e della sua squadra, fino a sottoporre le sue risorse di autocontrollo a prove snervanti.
Se l’offeso giungerà a non sopportare più il dileggio e l’insulto, la conquista di una sua ammonizione o ancor meglio dell’espulsione, darà ai teppisti uno smisurato senso di potere; un brivido di vittoria premierà il “dodicesimo giocatore” se con i suoi cori segnerà una rete con mezzi impropri, fallosi e immorali o extramorali.
La miscela di eccitazione e calcolo è un’aggravante, non un’attenuante. Poiché questi comportamenti “pagano” quando importa solo vincere, i dirigenti delle società saranno complici di chi li adotta, salvo prendere retoricamente le distanze per salvare la faccia quando degenerano. La tacita collusione di chi sta in alto nella scala societaria fornisce un modello che contagia i normali spettatori e attrae sbandati, facinorosi e bulletti. Dopo un dramma, i paroloni di rituale riprovazione sanno di impostura al punto da ottenere l’opposto degli effetti desiderati.
Tra i tanti difetti di chi depreda e immiserisce lo spettacolo sportivo, vi sono l’ipocrisia diffusa, la complicità culturale e ideologica, le sceneggiate, il diffuso analfabetismo di giornalisti e commentatori, le reiterate assoluzioni preconcette, l’immobilismo, la filosofia lottizzatrice che prevale negli apparati del presunto autogoverno degli sport, e infine le pretese insaziabili di chi finanzia e rivende lo spettacolo calcistico.
Si ventilano varie ipotesi per prevenire il contagio dei labili al tifo. Qualche romantico invoca il ritorno dei turni unici il pomeriggio sacrificando gli interessi delle pay tv che finanziano un sistema abnorme e bulimico. Più realisticamente, lo show non deve andare avanti: va fermato. Servono norme e leggi severe e dissuasive. Sigle demenziali e fascistoidi come “Sangue e onore” non possono più avere corso negli stadi. Le società, incluse quelle minori, devono dotarsi di posti numerati, impiegare dispositivi di controllo e monitoraggio e sopprimere gli spazi segregati dedicati agli ultras, il solo modo per impedire a priori agli esagitati di assembrarsi.
Soprattutto, è bene esigere che le società usino parte delle loro entrate – senza oneri per lo stato – per rendere gli stadi confortevoli e pacificati; secondo commentatori imparziali, estranei alle corporazioni degli “addetti ai lavori”, le spese per la tutela dell’ordine pubblico vanno spalmate su tutte le squadre in proporzione alla media degli spettatori.
Non è giusto che i costi per l’impiego delle forze dell’ordine ricadano sulla stragrande maggioranza dei contribuenti che non vanno allo stadio, che vivono pacificamente e non trasgrediscono le norme di convivenza. La sorveglianza preventiva e l’interdizione di soggetti potenzialmente pericolosi compete alle società calcistiche. Alla pubblica giurisdizione devono competere invece le sanzioni, attualmente ridicole: squalifiche prolungate, penalizzazioni sostanziose, multe milionarie sono le sole misure appropriate di deterrenza. Le invochiamo per ogni manifestazione di criminalità organizzata: perché non anche per il “tifo” e per le società arrendevoli e corrive?
Ogni mente ragionevole può condividere queste misure di contenimento. Purtroppo, i dirigenti della Federcalcio e il variopinto sottobosco che prospera attorno allo spettacolo calcistico non sono disinteressati. Solo un moto creativo di opinione pubblica potrà rimuovere i primi e bonificare il secondo. Nulla di quanto pay tv, monopoli privati, società e potentati politico-sportivi si sono impossessati va ritenuto irreversibile. Come in altri contesti, opporsi alle corporazioni è un’urgenza nazionale.
Il compito di reagire al generale collasso civile spetta a una élite consapevole di essere minoritaria. Ma nello specifico del tifo noi possiamo fare qualcosa. Noi siamo il vaccino. Sino a oggi ci siamo rassegnati a venire esclusi da azioni di contrasto, e non dovremmo arrenderci più. Sbandati, facinorosi, bulli e tifosi non si nasce. Ma in assenza di anticorpi e barriere emotive di segno opposto alle pulsioni violente, nell’attuale labilità delle moltitudini qualcuno lo diventa più facilmente di altri.
Gli anticorpi si formano con i gesti, non con le parole. Noi cittadini pacifici e moderati che apprezziamo lo spettacolo calcistico dal vivo esattamente come apprezziamo la lirica, il jazz o l’atletica leggera, siamo la negazione radicale della tifosità.
A noi compete contrastare i tifosi, dissuaderli con l’esempio, spezzare l’omertà e l’indifferenza dei pavidi davanti ai reiterati atti di criminalità dentro e fuori gli stadi. Sta a noi convincere i padroni politici del calcio, gli sponsor e i dirigenti delle squadre che conviene a tutti se lo spazio delle curve diventa nostro e cessa di essere “loro”. Se i vertici del calcio abdicano, l’azione (anche fuori dagli stadi) passa ai soli che hanno un interesse fattuale a civilizzare gli spettacoli sportivi: a chi desidera divertirsi in spazi confortevoli, non assordanti, depurati da ogni ritualità mistica, disarmati e pacificati persino nelle parole e nei gesti.
Immagino due efficaci atti simbolici. Possiamo andare allo stadio normalmente vestiti, sedere in curva, riappropriarci dello spazio oggi concesso ai tifosi e invitare altri a fare altrettanto. Ci sono bande armate che provano a menare i sostenitori avversari? Andiamo a presidiare le vie, vediamo se osano aggredirci. I tifosi ricattano i dirigenti; e noi non possiamo diventare un gruppo di pressione legalitario più forte di loro?
L’assenza di una distinzione concettuale tra tifosi e sostenitori moderati e pacifici, impedisce al pubblico e ai dirigenti calcistici di reagire in modo efficace, perché l’uno e gli altri si trovano in uno stato di sudditanza culturale. Non a caso non si sono in pratica mai visti spettatori che zittiscono i cori razzisti dei tifosi, spesso schiuma della destra più estrema.
Tra gli spettatori prevale la viltà, la connivenza, la sottovalutazione delle circostanze, la rassegnazione al “così fan tutti”. Liberarsi della retorica che assolve i tifosi per i loro comportamenti patologici ed escluderli dalla comunità degli spettatori che condividono un antiprotagonismo radicale e il piacere dell’invisibilità, sono i primi passi per restituire gli stadi e le aree adiacenti a comportamenti civili. Due passi facili a compiersi, se finalmente guarderemo la realtà senza infingimenti. Per questa via potremo anche ottenere più sicurezza assecondando le piccole gioie di vivere anziché fare leva sull’appagamento generato dalla socializzazione dell’odio.
Per intanto siamo tutti Asamoah.
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