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L’autonomia istituzionale, oggi sul banco del governo, è argomento che divide e dividerà tutti gli schieramenti di maggioranza e di opposizione e anche alcuni partiti al loro interno. Bene così, si frantumerà il muro contro muro che talvolta frena la forza delle idee e paga un conto salatissimo alle fedeltà partitiche. Bisognerà però entrare sempre di più nel merito dei problemi pur senza troppo indugiare sui dettagli tecnici.
Lombardia, Veneto, Emilia Romagna hanno chiesto maggiore autonomia più di un anno fa. Le prime due Regioni attraverso un referendum popolare. La terza applicando subito, con un saggio risparmio di denaro pubblico, la strada indicata dal dettato costituzionale.
È il regionalismo differenziato previsto dall’articolo 116 della Costituzione approvato nel 2001 dal centrosinistra e poi da un referendum popolare malgrado la contrarietà della Lega Nord ancora alle prese con la tentazione del separatismo.
Quella norma dice così: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia……possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata”. La condizione indispensabile è che la Regione abbia i conti economici in regola, cioè che sia “virtuosa”, come si usa dire. Le scelte concrete fatte da quella Regione, giuste o sbagliate, le valuta l’elettore e non lo Stato che dovrebbe fare questo esame a sé medesimo.
La pre-intesa fra il governo e le tre Regioni è stata prontamente raggiunta nel febbraio 2018 con il governo Gentiloni mentre il prossimo febbraio dovrebbe essere siglato l’accordo vero e proprio da sottoporre all’approvazione del Parlamento a maggioranza assoluta.
L’accordo dovrebbe riguardare in particolare ambiente, scuola, lavoro, salute. Ecco come: insieme ai servizi trasferiti, le Regioni riceveranno le risorse spese negli ultimi anni dallo Stato (dato storico) per i medesimi servizi. Se le Regioni risparmieranno mantenendo almeno gli stessi livelli terranno i soldi risparmiati e li impiegheranno come vogliono.
Non si tratterebbe di noccioline e i numeri, benché assolutamente ipotetici per ora, sarebbero rilevanti. La quota trasferibile sarebbe di circa venti miliardi su un totale di quasi settantadue miliardi che lo Stato impegna per Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Per le altre Regioni continuerebbe lo Stato a gestire gli stessi servizi. Una bella sfida che, io penso e mi auguro, le Regioni vinceranno superando un uniformismo amministrativo che frena l’Italia.
Nei successivi cinque anni si definiranno i costi standard dei servizi di cui si parla da molto tempo e tutte le inefficienze delle Amministrazioni territoriali verranno al pettine mettendo le varie classi dirigenti territoriali di fronte alle loro responsabilità (o irresponsabilità) e saranno la base per spezzare il comodo cordone ombelicale che lega diverse Regioni all’assistenzialismo statalista che è una delle cause (non certamente la sola) della loro arretratezza.
Le obiezioni vengono dalla preoccupazione che in questo modo si possano allargare le differenze fra Nord e Sud. Ma queste differenze non si colmano fermando il Nord ma facendo in modo che esso traini ancora di più il Sud e il resto d’Italia.
Gli ultimi esempi positivi in questo senso vengono dalle Olimpiadi invernali che, se assegnate all’Italia, verranno gestite da Milano, Lombardia e Veneto senza i denari del governo nazionale che si è chiamato fuori. E vengono dalle piazze che si organizzano, senza neanche l’apporto dei partiti, per chiedere le infrastrutture pubbliche. E vengono dalla capacità imprenditoriale del cosiddetto partito del Pil senza del quale saremmo già sprofondati.
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