Che musica ascoltano i nostri ragazzi? Diversa, molto distante sia dalla musica impegnata sia da quella popolare degli anni della nostra adolescenza.
La tragedia della discoteca di Corinaldo ha messo in allerta chi, come me, si ritiene esperto conoscitore del campo educativo e ha rivelato in modo traumatico l’esistenza di modelli di cultura musicale lontani anni luce dalla nostra esperienza.
Comprensibile che le canzoni odierne rappresentino una forte rottura con il passato, che le sensibilità siano così marcatamente contrapposte, che i ragazzi e i bambini non si riconoscano nelle “nostre” canzoni.
Legittimo interrogarsi sull’evoluzione e sui limiti dei concetti di arte e di poesia nella musica delle generazioni che si sono succedute in questo passaggio di millennio.
Ciò che è meno accettabile, invece, è il preteso primato delle canzoni del nostro tempo su quelle attuali, anche se sono numerosi i testi dei nostri cantautori che a distanza di decenni non smettono di essere apprezzati anche dai giovani di oggi.
Un problema però si pone quando si viene a contatto con i testi di canzoni che vanno per la maggiore tra i ragazzi, molti dei quali giovanissimi.
Tempo addietro, una decina di anni fa, un bambino aveva rivolto all’insegnante un epiteto che l’aveva spinta a comminargli una punizione, rifiutata categoricamente dal genitore in quanto la frase incriminata stava dentro la canzone di un noto cantautore, il milanese Tricarico, classe ’71, dove si inveiva contro la maestra chiamandola p*****a. La mamma aveva chiarito che il cantante parlava di una vicenda autobiografica: la maestra lo voleva costringere a scrivere un tema sul papà nonostante lui avesse provato a spiegarle che il padre era morto quando lui aveva solo tre anni.
L’insensibilità della maestra non sembrerebbe, ora come allora, una buona ragione per sdoganare un termine offensivo sia fuori sia dentro la scuola.
La canzone di Tricarico “Io sono Francesco”, reperibile su YouTube, ai nostri giorni fa quasi sorridere se comparata al testo di alcune canzoni “rap” in circolazione.
Il rapper Sfera Ebbasta, atteso alla discoteca di Corinaldo, idolo di bambini e di preadolescenti, nonché di alcune mamme, recita e canta così, nel brano “Trap King”:
Nella tomba mi voglio portare soldi ed erba
Ma prima di andarci voglio uscire dalla m***a
Spiegarti com’è che vivo, non credo che serva
Hai presente un grammo? pensa ad una serra
Panico se afferra il serramanico, rapido
Sali sulla sella e scappiamo nel traffico
Più in fretta della gazzella
Poi abbandoniamo il mezzo al primo angolo
Siamo giovani promesse del blocco.
Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, 26 anni, è il rapper più in voga d’Italia, il massimo interprete della cosiddetta trap, un po’ cantata e un po’ parlata, con un largo ricorso all’elettronica.
Sfera, il nome d’arte, nasce in ossequio alla firma che lasciava sui muri sotto alle scritte incomprensibili ai più, dette tag. Mentre “Ebbasta” sta a significare che per riconoscerlo è sufficiente il nome e un cognome non serve.
Psichiatri, psicologi, educatori si sono espressi sul fenomeno dei rapper anche analizzando i testi delle loro canzoni. Molti hanno evidenziato la grave circostanza che i destinatari sono bambini e ragazzini, per legge considerati minori fino al compimento dei diciotto anni.
La gran parte dei testi è ancora più dura di quello che si legge sopra: violenti e spesso misogini, veicolano l’immagine di una donna succube, anche sessualmente, del maschio e disposta a tutto pur di essere accettata.
Alcuni rapper affermano che le canzoni sono uno strumento per la crescita dei ragazzi e che la loro musica si basa sulla rottura e sulla protesta verso il mondo degli adulti. Anche quarant’anni fa le parole d’ordine erano “ribellione” e “protesta” ma oggi tali concetti sono declinati in modo ben diverso: possiedono una forza eversiva molto più marcata e trasmettono una rabbia che sfiora il nichilismo e veicola un senso di vuoto allarmante.
Anche negli anni ’70 giravano testi che inneggiavano ad alcol, droga e viaggi mentali raccontati nel dettaglio ma una differenza consiste nel fatto che allora non si rivolgevano a bambini di 10 anni, mentre ora che la rete ha sconvolto i riferimenti alle fasi della vita, chiunque, quindi anche un bambino, può venire a contatto molto presto con una musica che richiederebbe almeno destinatari più maturi.
Non sappiamo se sono i discografici a doversi dare una “regolata”: non piacerebbe a nessuno un ricorso alla censura. Invece una maggiore vigilanza da parte dei genitori e degli educatori, questa la si dovrebbe pretendere. Così come ci si potrebbe attendere un ruolo attivo della scuola nei confronti del linguaggio delle canzoni.
Sarebbe urgente anche che il mondo della cultura e dell’educazione si mobilitassero per porre un argine a un degrado culturale che nuoce alla crescita equilibrata delle nuove generazioni, accettando il rischio di passare per moralisti.
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