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Società

PROVINCIALI

MANIGLIO BOTTI - 21/12/2018

Chiara, Rodari e Morgione

Chiara, Rodari e Morgione

Meschinità di gusto, limitatezza culturale, grettezza forse. Qualche settimana fa, un uomo politico di lungo corso di Varese ha riattizzato sul quotidiano locale una polemica che data almeno dai tempi di Carlo Còdega: sul provincialismo e nella fattispecie se il territorio  varesino, la sua gente – pur nei limiti anche lessicali che questa definizione comporta – vi possano essere configurati.

 Si potrebbero citare in proposito i nomi di grandi imprenditori e di industrie (Giovanni Borghi e la Ignis, l’Aermacchi, l’Augusta… ) e anche di riconosciuti uomini  di cultura e letterati che a Varese vissero, vi abitarono, vi nacquero:  Vittorio Sereni, Piero Chiara, Guido Morselli, il premio Nobel Dario Fo. Per riaffermare ancora e con tutta evidenza che Varese dal punto di vista della cultura del lavoro (e anche dello sport: la Ignis), della cultura letteraria tout court non fu nient’affatto limitata.

 Ma senza volere a tutti i costi apparire come coloro che vogliono guastare il sogno, viene subito da dire che Varese – come molte altre città italiane – è proprio una città di provincia (anzi, poco meno di un secolo fa, prima che venisse staccata da Como e in parte da Milano, era addirittura una sottoprovincia). E soprattutto era ed è, ed è sempre apparsa tale, come una città con una storia che nell’arco dei secoli e dei millenni s’è dipanata con caratteristiche diverse e, appunto, limitate secondo i canoni classici che la potrebbero fare eccellere.

 Sembra un’affermazione banale ma Varese –  nonostante tutto il suo impegno, suo e delle persone che vi sono vissute, nonostante le “protezioni” dell’Unesco – non è certo Roma o Milano, e nemmeno Napoli, Palermo, Venezia, Bologna, Firenze, Torino… Con tutto il rispetto – perché poi ogni città, ogni borgo, ogni cantone del mondo hanno qualcosa da dire e da vantare di sé – Varese potrebbe più facilmente essere assimilata a Cuneo, Treviso, Asti, Vercelli, Catanzaro, e magari anche qualcosina di meno. Le ragioni di questa storia minore forse stanno anche nel fatto che Varese la grande storia l’ha sempre condivisa con una grande metropoli (oggi) come Milano e forse anche con Lugano e con la Confederazione svizzera verso la quale si proietta come un ponte geografico e magari culturale.

 Piero Chiara, che era nato a Luino, e che aveva nella sua natura il crisma del cosmopolita, benché nel corso della sua vita fosse vissuto a lungo a Varese (non a caso il veneziano Giacomo Casanova era uno dei suoi autori prediletti), diceva con molta ironia che Varese è quella città “dove gli svizzeri vengono a comperare le scarpe e i milanesi a fare le vacanze”. Perché questa qualifica di Varese come la Versailles di Milano, a lungo andare, può essere stata motivo di grande orgoglio ma anche un limite e un freno a una sua originalità culturale.

 E non senza una buona dose di sarcasmo sempre il citato Piero Chiara rammentava l’esordio della famosa poesia di Giosué Carducci, il Parlamento: ”Sta Federico imperatore in Como. / Ed ecco un messaggero entra in Milano…”. Se Carducci avesse scritto “Sta Federico imperatore in Varese”, a parte le dotte annotazioni sul castello di Belforte, l’endecasillabo non avrebbe funzionato, perché Varese – anche se faticava sempre a decidersi – era parte di Milano.

 Un altro autore spesso citato e ricordato, Gianni Rodari, il grande scrittore di novelle per bambini (arte difficilissima), di Omegna, cittadina provincialissima, che visse però a Gavirate da alcuni parenti e che a Varese studiò, diplomandosi all’istituto magistrale Manzoni, annotava come Varese fosse in prevalenza città “di esercenti freddi e interessati”, cui cioè poco interessava della cultura.

 Non è il caso di indagare a fondo i perché e i percome di questi giudizi un po’ tranchant, ma che a Varese spesso si guardi con occhio attento agli affari e al denaro, che “dant panem” più e meglio dei “carmina”, sembra cosa notoria. E con ciò, tuttavia, non si vogliono negare e cancellare nemmeno esperimenti (piuttosto lontani ahinoi) che cercarono di fare di Varese un laboratorio culturale – pensiamo per esempio al gruppo del Portico, nell’immediato dopoguerra –, togliendola dunque da un prolungato provincialismo. E pure si potrebbero ricordare le decine e decine di Cuori d’Oro – i silenziosi benefattori – che hanno lavorato per costruire una città sinceramente solidale. Così come – s’è sempre affermato –  in Italia Varese è stata un “laboratorio politico”. Lega docet.

 Gaspare Morgione, abruzzese di Lanciano, che fu caporedattore e poi condirettore del quotidiano locale, in cui chi scrive ha lavorato per una quarantina d’anni (avendo vissuto una vita a Varese e avendovi studiato ma non essendovi nato, come molti), diceva spesso con il suo sorriso agrodolce: “Se uscissimo con questo giornale, che so, a Parma o a Ferrara o a Rimini, qualche giorno verremmo presi a pomodorate in faccia”. Perché, appunto, il giornale, che è sempre e in ogni caso un’avanguardia culturale,  talvolta, più che la cultura e la tradizione, e gli esaustivi elenchi di partecipanti ai lutti, del sito rispecchiava bene solo quel concetto di “cultura del lavoro” – per non essere offensivi – e dell’occhio ai danée già rilevato. E magari, se si vuole, con i tempi che corrono, un occhio nemmeno tanto negativo.

 Il ricordo di Gaspare Morgione nella cosiddetta Città Giardino, una delle figure più belle della cultura, del giornalismo di questi ultimi cinquant’anni (il suo libretto Dio creò gli alberi a sua immagine e somiglianza è una perla nel nostro mondo letterario, tanto che piovevano sulla sua scrivania lettere di amicizia e di complimenti, e piace sottolineare su tutte quelle di Ennio Flaiano, il primo Premio Strega) non è buttato lì a caso.

 Nel numero celebrativo del centotrentesimo compleanno del giornale locale, uscito di recente, il nome di Morgione manco viene citato. Nemmeno un paio di righe. Compaiono quelli dei tipografi, delle “maestranze” (cari e laboriosi amici), inevitabilmente i nomi dei direttori, si documentano le vicende storiche, poi si raccontano quelle “nere” e “rosa”:  un secolo e passa di vita e di avventure. Ma per il resto stop, si procede, all’insegna del “come eravamo” e soprattutto del “come vorremmo essere”. Chissà.  Può darsi che si sia trattato di una semplice, banalissima dimenticanza. Succede nelle migliori e più volenterose rievocazioni. Nel caso, con un esito molto provinciale.

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