Secondo una leggenda generazionale il biennio 1968-1969 recò con sé un’intensa felicità e un inedito fervore nella vita di chi ne fu partecipe attivo, studente o lavoratore che fosse.
Vi fu fervore, non però felicità. O almeno fu così per me e per chi allora frequentavo.
L’iniziale slancio libertario fu ingabbiato da ideologie che avevano devastato l’Eurasia tra il 1914 e il 1956. Incapace di cogliere tragedie in atto come la rivoluzione culturale cinese o il soffocamento della Primavera di Praga, impegnata per fini altisonanti che sorvolavano i nodi dell’esistenza concreta celando l’inconsapevole abdicazione ai compiti di un’élite in formazione, la maggioranza degli studenti era troppo seriosa e sussiegosa per sapersi godere la vita in termini individualmente gioiosi. Quanto ai lavoratori dipendenti, in un’epoca di persistenti ristrettezze la felicità era un lusso, la cultura una faticosa conquista e lo spirito libertario una trasgressione per figli di papà.
Al di fuori dei momenti elettrizzanti di cortei, scioperi e assemblee, in seguito cristallizzati in un epos biografico, quel biennio restituisce oggi uno sfondo grigio. Passioni rese sgargianti dall’alta intensità emotiva si scolorano non appena riemerge il sapore di muffa della noia, la pochezza delle idee nascoste dietro la sovrabbondanza dei proclami e dei cerimoniali, il divertimento senza gioia, la tetraggine di relazioni stereotipate, l’atteggiarsi missionario e messianico. Una volta che gli anni hanno distanziato l’epos e attutito la nostalgia, resta un alone di tristezza. Accanto alle conquiste – oggi o quasi del tutto rifluite o malamente defluite o rivelatesi controproducenti –, appaiono più chiaramente molte ombre.
Almeno in Italia gli anni d’oro furono i ’70: meno epici, anzi più tragici a causa dei terrorismi e dei movimenti violenti di estrema destra e di estrema sinistra (ai quali va aggiunto il terrorismo di pezzi dello stato, che esordì proprio nel dicembre 1969), ma altresì più fecondi. Questa fecondità fu in continuità con il decennio precedente il ’68, allorché l’Europa occidentale e l’America settentrionale conobbero un’inedita promessa di gioia, di liberazione e di promozione sociale e culturale. Fu un’epoca di fervore pressoché unico nella cultura di massa, specie nel cinema, nella comunicazione, nel design e nella musica. Molte aspirazioni collettive e private parvero pronte a trasformarsi in opportunità. Ebbe inizio una grande rivoluzione nei costumi, nei comportamenti e nelle scelte di vita. Nella prospettiva del piacere di vivere, il biennio ’68-’69 segna in Italia una temporanea cesura. L’ondata espansiva scaturita nel decennio precedente si protrasse per almeno altri due decenni, avendo come motore le donne, fino a venire lentamente sopraffatta da una lunga involuzione che ha preluso al letale “ritorno all’ordine” in corso.
Tra il ’68 e il ’69 quel fervore fu compresso in un imbuto. L’auspicato “cambiamento del mondo” fu allontanato da pretenziosi profetismi, da concettuose disquisizioni di metodo, da obiettivi impraticabili e talvolta farneticanti. Liberando enormi energie latenti, il ciclo di lotte operaie permise all’azione studentesca di sopravvivere e addirittura estendersi. Ma gli studenti scomparvero come soggetto politico autonomo e plurale, come laboratorio culturale, e sopravvissero come militanti: i più rifluiti nello stalinismo illanguidito del PCI, alcuni attivisti di questo o quel gruppetto o partitino, un’esigua minoranza alla deriva dopo essersi arresa al fascino della violenza. I primi contribuirono all’avanzata di un partito impossibilitato a governare ma forte quanto bastava a negoziare con i governi in carica. I secondi sciuparono le loro energie senza costrutto. La minoranza estremista ai processi di emancipazione antepose l’estetica del conflitto e la mistica dell’azione collettiva. La “felicità” consisteva per costoro nella folla che vibra all’unisono, nella presenza nel flusso caldo e accogliente di una “rivoluzione” immaginaria, nella sfida a poteri costituiti identificati sempre come nemici e mai come interlocutori possibili, e – con esiti nefasti – nell’orgasmo onanista di chi, come Toni Negri, provava “il calore della comunità operaia e proletaria ogni volta che mi calo il passamontagna”. La politica con la sua enfasi totalizzante contribuì spesso ad assorbire a sé l’individuo piuttosto che porlo in valore nella singolarità delle sue scelte e inclinazioni. E produsse tristezza, grigiore, dissipazione.
Vi offro una testimonianza diretta di cinquanta anni fa. Trascorsi la notte di San Silvestro tra il 1968 e il 1969, con alcuni amici – quasi tutti maschi – in un locale di Varese, il Cantinone, una sommatoria di spazi multipli dislocati tra via Croce, piazza Giovane Italia e il vicolo Scuole. Prima di quella sera non avevo mai festeggiato fuori casa l’ultimo dell’anno. Allora non usava il cenone: bastavano dei ravioli in brodo, il cotechino con lenticchie, il panettone e il mascarpone. Si attendeva la mezzanotte davanti alla tv, si gettava un coccio dalla finestra a scopo augurale e poi dritti a letto. La festa era il pranzo di Capodanno, celebrato con i parenti più stretti in uno scambio di ospitalità con Natale e Santo Stefano. Dalla maturità ho preso ad uscire quasi ogni sera. Ho sempre guardato con fastidio le feste dove è d’obbligo divertirsi: San Silvestro, Carnevale, San Valentino, poi Halloween e in ultimo le notti per coatti lumpenculturali che si “movidano” ogni weekend. Il dovere di divertirsi genera una noia mortale dettata da una prevedibilità seriale e omologata, e costruisce ergastoli temporanei volontari cui ci condanna un modo di vita vuoto, precodificato e intellettualmente poverissimo. Per me il gesto più anticonformista e contestativo di queste costrizioni era e resta astenersene e stare tra amici o in intimità. Proprio l’anno prima, a Belgrado, in viaggio con l’amico a me più caro, mi ero concesso una cena sontuosa in un ristorante di lusso nella città vecchia, e al termine siamo tornati in ostello. La sera del Cantinone fu perciò una specie di debutto.
Il nucleo dell’incontro era pragmatico: si volevano consolidare i legami politici e amicali entro un gruppo eterogeneo guidato da quattro persone che cominciavano a divergere lungo linee sottili ma sempre più marcate. Eravamo un manipolo di maoisti: almeno dieci studenti universitari, tra il primo e il terzo anno, di cui una coppia appena costituita e rimasta poi insieme per tutta la vita; un paio di giovani operai di piccolissime aziende familiari; e qualche adulto, tra cui tre ex partigiani messi ai margini dal PCI e dall’ANPI (due alcoolisti, un terzo affetto da disturbi psichici), un impiegato pubblico con la novella sposa, un commerciante e qualche altro di contorno.
Nell’ala principale erano convenuti i clienti abituali: avvinazzati, per lo più cinquantenni, soli, tutti maschi, vari scapoli. Il bar offriva sacchetti di patatine, panini con salumi o formaggio, vino, birra, spuma e gazzosa. A dare al locale un’aura trasgressiva erano gli habitué, gente usa a campare di espedienti e di attività precarie quando hanno voglia o opportunità di lavoro. Questa fetta di sottoproletariato marginale trovava rifugio nelle taverne non avendo un altrove dove andare.
Non c’è nessuna festosità nei clienti. Non ci sono sbronzi felici. In quella grande sala, il capodanno somiglia a qualunque sabato sera: si arriva già verso le sei, si fa il pieno di benzina e si torna a casa barcollando in motorino, in bici o a piedi. Sono atomi isolati che galleggiano in uno spazio proprio. Tra loro si accendono discussioni per futili motivi ma la quiete torna presto.
Nella sala adiacente – oggi una vineria – sostano quattro coppie convenute per conto proprio: una stabile, unita dalla passione per la moda e per l’aura alternativa del luogo; una ragazza esperta di cinema in compagnia di un rampollo dell’alta borghesia cittadina; una ragazza di grande bellezza che flirta con un vagabondo francese che vagava tra il Cantinone e il 501, un locale per gente ormai depredata dall’alcol; e una politica di professione e il suo compagno. Le coppie restano lì, ogni tanto girano per le altre stanze, poi tornano a chiacchierare e a ordinare qualcosa. Per loro il gestore prepara dei piatti caldi. Noi abbiamo cenato a casa prima di arrivare!
Nella sala accanto siedono a un ampio tavolo degli abituali giocatori di poker circondati da osservatori sfaccendati altrettanto abituali. Ci sono tra loro borghesi, studenti fuori corso, aristocratici titolati, piccoli avventurieri. Qualcuno di loro beve whisky; vuole dissiparsi, e il pokerista di professione è lì apposta per spennarlo. Anche il gioco è una trasgressione iniziatica.
Noi occupiamo due stanzine fredde e squallide collegate alle altre da un piccolo cortile con gli orinatoi. Per sfuggire alla tristezza del chiacchierare del più e del meno facciamo avanti e indietro dalle altre stanze, consumando qualcosa, magari incontrando qualche avventore sopraggiunto per vedere come era il giro lì, trovare compagnia e fare due chiacchiere senza capo né coda.
Le due nostre coppie finiscono per aggregarsi alle altre. I partigiani e il medico mancato vengono attratti dai loro simili. Davanti alle coppie noi maschi rimasti proviamo un disagio di cui non parliamo. Siamo troppo ingessati per confidare le nostre proiezioni affettive, con il risultato di restare ancora più soli. Nemmeno i sobri sono felici. All’arrivo della mezzanotte si torna a casa alla spicciolata, con la sensazione di aver timbrato il cartellino e poco altro.
La domanda di una qualità di vita a misura individuale come percorso di liberazione, in omaggio alla supremazia irriducibile della singolarità su ogni astrazione categoriale, sarebbe arrivata con il 1974. Allora con uno degli amici, quello a me più simile e ancora vicino, ci definimmo scherzosamente “marx-edonisti” sostituendo il “compagno Veronelli” alla Santissima Trinità dei comunisti (Marx in verità fu un uomo profondamente infelice). Da allora ho avuto, in qualche caso, dei capodanni gioiosi e privi di tetraggine. La prima liberazione è quella da se stessi, è quella di contraddirsi, cambiare strada e persino tradirsi pur di scoprire altri varchi e altri approdi. Mi sono occorsi cinque anni per mettere i pantaloni lunghi.
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