In questi giorni si parla molto di giovani. Le scuole organizzano giornate di presentazione per pubblicizzare le loro strutture e programmi. Il comune di Varese con l’aiuto di un’Agenzia del lavoro ha gestito un meeting al palazzetto dello sport, concerto serale compreso.
Perché queste lodevoli iniziative? Vanno anche considerate con preoccupazione? La risposta è positiva. Siamo il Paese europeo con la più alta percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che non studiano né lavorano. È quanto emerge dai dati pubblicati da Eurostat. L’Istituto europeo di statistica certifica che degli oltre 38 milioni di giovani che vivono nell’Unione, il 40,4% studia, il 27,4% lavora, il 17,4% è in alternanza studio-lavoro mentre il 14,3% è catalogato come Neet (circa 5,5 milioni).
L’acronimo, utilizzato per la prima volta dagli Inglesi, sta per Not (engaged) in Education, Employment or Training. I dati disaggregati dicono che l’Italia ha anche un triste primato: un giovane su quattro non studia né lavora. Un milione e quattrocento tredicimila giovani che scivola verso i confini del mercato occupazionale, che rischia di non contribuire mai al sistema previdenziale.
È forza lavoro che sarebbe molto utile alle imprese in un momento come questo ma che resta inattiva, espulsa dai percorsi formativi e che non riesce a entrare nel mondo del lavoro.
Eppure un provvedimento in evoluzione positiva è stato bruscamente fermato. Parlo dell’alternanza scuola-lavoro. Per l’anno appena iniziato, negli Istituti professionali si passa da 400 ore del triennio finale a 180; negli Istituti tecnici da 400 a 150; nei Licei da 200 a 90. Ovviamente il Ministero assicura che la scuola potrà svolgere percorsi per un numero di ore superiori purché non superi l’ammontare dei fondi stanziati.
L’alternanza non è un contratto di lavoro, deve avere finalità orientative. L’esperienza fin qui acquisita aveva confermato il superamento di notevoli difficoltà attraverso la gestione di progetti poi risultati validi nei settori: meccanico, chimico, tessile, farmaceutico, commerciale e turistico.
Purtuttavia molti datori di lavoro ospitanti, si sono lamentati per la perdita di tempo. Su quest’ultimo aspetto hanno inciso alcuni fattori che meritano attenzione: i giovani accolti andavano educati, bisognava insegnare loro come muoversi in casa d’altri; gli imprenditori, benevolmente disponibili, non avrebbero dovuto utilizzare la sperimentazione solo per far svolgere attività di estrema marginalità; l’ammontare di spesa messa a disposizione è risultata insufficiente.
Per fare un esempio, nelle scuole alberghiere, fin dal primo anno, gli studenti imparano il mestiere presso aziende convenzionate ma senza un corrispettivo di retribuzione.
Questo criterio, seppure in forma diversa, è applicato nella Provincia di Bolzano. Il sistema duale, mutuato dalla Germania, è basato sull’alternanza scuola-lavoro ma rappresenta qualcosa di molto diverso dagli stage aziendali dedicati alla formazione professionale.
L’apprendista (fascia di età 15-24 anni) entra in questo circuito formativo sulla base di un regolare contratto di lavoro, in forza del quale è tenuto sia a frequentare le lezioni dei suoi corsi all’interno delle scuole professionali della Provincia, sia a lavorare presso l’azienda o l’artigiano con cui ha stretto il contratto.
Questo apprendistato, definito professionalizzante, è lo strumento destinato a costruire competenze con flessibilità, grazie alla collaborazione fra le scuole provinciali e i datori di lavoro, tenuti a stilare piani di formazione individuali per gli apprendisti che assumono.
Un altro apprendistato, di alta formazione e ricerca, è invece un ponte verso l’Università, realizzato in collaborazione con la Libera Università di Bolzano e il Politecnico di Torino. Il progetto “studenti in attività” permette di conseguire, diplomi e lauree di primo livello nei corsi di ingegneria gestionale e informatica applicata svolgendo in contemporanea un apprendistato retribuito; ha la durata di quattro anni e prevede la retribuzione per tre anni su quattro.
Secondo la mia opinione stavamo cercando di sviluppare il “sistema duale” invece, in aggiunta alla diminuzione delle ore di alternanza scuola-lavoro, rimane l’appello degli imprenditori i quali sostengono di non trovare disponibilità nei settori trainanti della nostra provincia e suggeriscono di iscriversi agli istituti tecnici superiori per una formazione terziaria non universitaria ossia a corsi post diploma della durata di 2, 4 o 6 semestri con una forte presenza delle imprese nella docenza e progettazione dei tirocini.
Questi istituti, per ora, si trovano in alcune Fondazioni partecipate da imprese associate ed enti collegati all’Unione industriali della provincia di Varese. Queste Fondazioni e le Agenzie del lavoro costituiscono esempi lampanti di come la crescita di un sistema stia avanzando verso il trionfo del settore privato anche nel più importante pilastro su cui poggia la nostra Repubblica: la Scuola.
Per il principio di uguaglianza meriterebbero maggiore importanza i Centri per l’impiego. Ma a prescindere da questo desiderio perché non riusciamo a trovare un bandolo della matassa che possa fare bene e meglio a tutti? È così difficile impegnarsi per una più stretta collaborazione tra pubblico e privato?
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