Niente fast food, nei miei ricordi infantili.
Pizzerie, a Varese, non ce n’erano: si andava una volta all’anno a Milano, da Di Gennaro dietro il Duomo, accompagnati e “foraggiati” dai nonni meneghini. Se si usciva per il cinema, ci si accontentava di un bel caffelatte con pane e marmellata. In casi eccezionali, ci si permetteva il lusso di toast presi al bar Remo di via Magenta, riscaldati poi sul fornello. Il resto, era tutta opera casalinga.
E riconosco che l’impegno non era leggero.
Intanto, si faceva tutto a mano. Il caffè si acquistava in chicchi, e lo si doveva macinare nel macinino, quella scatoletta di legno col manico in ferro e il cassettino estraibile, oggi ninnolo vintage: lo si stringeva tra le ginocchia, e si doveva girare e girare e girare con un bel po’ di forza, per ridurre i chicchi in polvere. Idem per le polpette: il tritacarne si aggrappava al tavolo con un morsetto, si montavano i dischi del tipo più adatto, e anche lì si girava la manovella, facendo uscire di fianco una fontana di carne trita: una, due, tre volte la si doveva rimettere nella macchina, per ottenere l’optimum.
Il riso lo si doveva “mondare” dai sassolini e dai chicchi scuri, e lavarlo sotto l’acqua corrente. Idem per il sale grosso, (senza lavarlo però). Il pollo arrivava a casa come vivo, a parte le piume ma qualche volta anche con quelle. Era un lavoraccio, levare le interiora, tagliargli testa e zampe e fiammeggiarlo sul fuoco per togliere la peluria: ma che profumino inconfondibile, si spandeva!
Per montare panna e albume si usava la frusta, per la maionese un’ampollina che goccia a goccia lentissimamente regalava olio all’uovo sbattuto. I piselli e i fagioli avevano ancora il loro baccello da aprire, tenendolo poi con la sinistra e passandoci dentro il pollice per far rotolare via i semi.
Il tutto, ovviamente, sul grande tavolo al centro della cucina, con il suo fantastico ripiano in marmo, dove si impastava, si spianava, si stendeva la pasta, si versava lo zucchero caramellato, si batteva la carne, si ritagliavano i biscotti, si affettava la verdura.
E (quasi) tutto si faceva con mezzaluna e tagliere, ineguagliabili ausili della massaia. L’una, con l’affilata lama ricurva e due manici alle estremità, dondolava come un’altalena, su e giù, su e giù, e via a tritare, sminuzzare, raspare, pestare: olio di gomito e occhio alle dita! Il tagliere, che noi chiamavamo semplicemente “asse”, era ovviamente di legno: e doveva essere abbastanza grande, abbastanza pesante per non scivolare sul marmo del tavolo, abbastanza scavato al centro per lavorare meglio, senza disperderlo, il cibo da tritare: aglio prezzemolo basilico cipolla sedano carote salvia rosmarino noci nocciole mandorle…
E nell’organizzatissima cucina anni’50, nemmeno l’asse, insieme al matterello – arma della cuoca -, “ballava” in giro come succede oggi, appoggiato di qui o di là, o impilato a rubare spazio al piano di lavoro: ma avevano entrambi il loro bell’alloggio fatto su misura dentro il tavolo di cucina, di fianco al cassetto, da dove spuntavano ben visibili e pronti all’uso.
Altro che ergonomia!
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