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Stili di Vita

LA SCELTA

VALERIO CRUGNOLA - 07/12/2018

remissivoOstinazione e remissività sono due ben distinte – e talvolta opposte – disposizioni d’animo, inclinazioni, impronte del carattere o tratti della personalità di per sé privi di un intrinseco o retrostante significato morale.
Entrambe possono venire usate nel linguaggio per sottolineare un pregio di tipo rafforzativo (l’ostinazione ad esempio può dare una più vigorosa continuità e tempra alla tenacia; la remissività può accompagnare e addolcire l’attitudine alla mitezza senza che essa si muti in debolezza o in trascuratezza rinunciataria). L’una e l’altra si smussano e moderano reciprocamente in modo complementare. Considerabili entrambe l’anticamera di virtù tra loro connesse quali fortezza e temperanza, si pongono ciascuna su un limite oltre il quale si intravedono i loro incomponibili eccessi, che ci precipitano in un’arrogante ottusità, fino alla impossibilità di capire, e nella pusillanime arrendevolezza verso noi stessi, gli altri e le circostanze.

Prese a sé stanti, ostinazione e remissività contengono un’indole che può prendere direzioni ambivalenti: talora socialmente apprezzabili, talora foriere di eccessi dannosi. Entrambe sono passibili di venire educate alla cosiddetta «scuola della vita», possono essere apprese, formate e contenute dall’esperienza (specie nelle circostanze negative) e dalla riflessione introspettiva.

Benché prive di connotati etici, a simili disposizioni può essere applicato celebre il principio aristotelico della «medietà». La forza d’animo e la docilità (o dolcezza) d’animo sono pienamente compatibili. Nessuna delle due disposizioni vale presa a sé, e anzi in questo caso contengono elementi negativi: un surplus di rigidità e di fragilità; ad esempio, rendono ineludibile, ottusa e vagamente idiota la sconfitta (ne è un esempio storico il famigerato generale Luigi Cadorna), o portano alla resa immediata senza nemmeno saggiare le possibilità di resistenza (qui il pensiero va al non meno famigerato Petain o ai genitori che sbracano davanti al volere dei figli cercando di comprarne gli affetti o credendo erroneamente di difenderli e proteggerli).

È il loro comporsi secondo la giusta misura volta a volta necessaria a unire le due polarità che le rende efficaci e «costruttive». Gli opposti della misura sono due anziché uno: la dismisura e la sottomisura, l’eccedenza e lo stato dissimulato di difetto (visto che abbiamo tirato in ballo esempi mili- tari, l’opporre una barriera forte fino all’inevitabile rotta, o una protezione inutile di cavalli di frisia sotto un violento attacco di carri armati). Infine, il loro reciproco bilanciamento viene in soccorso del nostro agire volta per volta, situazione per situazione; e il loro giovamento all’esperienza vissuta consiste proprio in questo equilibrio che, esercitato e corretto, diviene un abito che con il tempo si indossa con dimestichezza secondo collaudati automatismi.

Può essere utile qui esplorare i campi di prossimità linguistica (non necessariamente sinonimi) dei due termini. In quanto eccesso l’ostinazione ha a che fare con una sorda testardaggine, con la non volontà di cedere quando sarebbe giusto farlo, con l’ottusità, la cocciutaggine e un immusonito e in- cattivito recalcitrare, ma – quando temperata – educa la determinazione costruttiva, la pertinacia, la perseveranza, la capacità di resistere e di tenere la barra su un obiettivo fortemente voluto, conseguibile contro ogni apparenza e apprezzabile contro ogni rischio di insuccesso.

A propria volta la remissività – qui più temprata che non temperata – ha a che fare con il saper indietreggiare senza cedere, con la capacità di assorbire gli urti, nel gergo pugilistico di «incassare». È quanto succede quando ci ritroviamo sorpresi e impreparati davanti a circostanze inattese, e ci cauteliamo rinviando la ricerca di una via d’uscita a un momento più propizio. In quanto eccesso, la remissività rivela la fragilità della personalità e, davanti a figure percepite come autorità o come cardini affettivi, l’accondiscendenza, la compiacenza, il timore, la subordinazione e l’insicurezza, rasserenabile solo con una supina obbedienza che sacrifica ogni autonomia di giudizio.

Ma debolezza e fragilità sono una caratteristica umana anche quando non è eccedente. La remissività può perciò venire associata al Dio cristiano a cui il credente si affida contando sul perdono misericordioso dei peccati e delle colpe. Diversamente da altre religioni monopolistiche, il Dio cristiano sa transigere, può cedere, non brandisce i propri comandamenti come ordini militareschi di cui pretende il pieno adempiersi senza alcuna sbavatura o esitazione. La remissività segnala quindi una debolezza, un’incompiutezza, un’imperfezione che l’ostinazione non sa e non vuole riconoscere.

Quando le opposte inclinazioni all’ostinazione e alla remissività ci indirizzano verso strategie esistenziali più compiute o a esiti formativi più consolidati, possiamo parlare di un carattere più portato all’intransigenza o alla transigenza. Entrano in gioco anche l’incapacità di autocritica e di revisione di sé – l’ostinazione può facilmente trasformarsi in un atteggiamento identitario, e non solo sul piano ideologico – o l’eccesso di criticità verso gli altri, denegandone in continuo i moventi e le ragioni; oppure, nel caso della remissività, la transigenza può trasformarsi in un deficit identitario, che ci rende gregari di personalità, di modelli o di convincimenti più forti e pronunciati, o un eccesso di autocritica, di svalutazione di sé, fino a uno stato di subordinazione passiva, ora abitudinaria e ora accolta sottotraccia grazie alla continua, impercettibile pressione di un ambiente sociale e culturale sfavorevole all’uguaglianza, come nello stato di servaggio delle donne ancora visibile nel Maghreb e in Medio Oriente oltre che in molti paesi di Asia, Africa e America Latina. La remissività può prevenire i danni irreversibili dell’ostinazione; mentre è la determinazione, non l’ostinazione, che può prevenire il succedersi dei danni (raramente irreversibili) della remissività.

Come tratto dell’animo che ricade nel comportamento verso gli altri, la remissività è più dolce, più conciliante, meno dogmatica, più aperta e pronta a correggersi. L’ostinazione è invece scontrosa, aggressiva, presuntuosa, dogmatica, cinica, disposta a conseguire qualcosa con ogni mezzo anche a scapito di altri, perennemente armata con un colpo in canna. L’ostinato è dunque condannato a un alto grado di infelicità, di nevrosi quotidiana e d’insoddisfazione, mentre il remissivo può almeno barcamenarsi in una vita forse non proprio felice e non pienamente soddisfacente ma certamente più serena, tranquilla e al riparo da conflitti ed avere più pace. Il remissivo sarà meno ambizioso ma difficilmente sarà nocivo, mentre l’ostinato è più predisposto a restare imprigionato nelle proprie ambizioni e fino ad essere intossicato e avvelenato da quella miseranda ideologia, da quell’aria fritta che, sotto il nome di «successo», viene invocata di continuo dai teologi del Mercato e dai miliardi di Osho che tromboneggiano sui media e sui social networks.

L’esercizio della remissione crea persone miti ed educate alla modestia. Al contrario la pratica a testa bassa dell’ostinazione genera mostri o esseri abnormi. Per questo – almeno dal mio punto di vista – la prima è quasi sempre preferibile alla seconda.

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