Raccontando cinquant’anni vissuti tra i canestri, prima da tifoso e poi da giornalista, Flavio Vanetti ha scritto il libro “Basket” (Casa editrice: TAM – Piccoli libri eccellenti, formato tascabile, 255 pagine, euro 9,50, si trova in libreria, su Amazon e in genere in Internet). La prefazione è di Ettore Messina. Ecco il capitolo intitolato “Simm-Ignis, il derby nel derby.
A mio avviso è stato un derby nel derby, il simbolo di un’era del nostro basket e, in fondo, pure di un momento storico ben preciso dell’Italia. Se le sfide tra Milano e Varese hanno rappresentato (e rappresentano ancora oggi, a ben vedere) uno degli assi cardinali della nostra pallacanestro, quando sono state declinate come Simmenthal-Ignis hanno acquistato ancora più fascino. E sono state partite decisive per permettere al basket di sfondare in televisione, regalando a cascata vantaggi a tutto il movimento.
È una storia durata 17 anni, con lo stesso punto d’inizio (il 1956, l’anno in cui Simmenthal sposò l’Olimpia Milano, sostituendosi al marchio Borletti, mentre a Varese l’imprenditore Giovanni Borghi, diventato presidente, mise sulle maglie il nome della sua Ignis cambiando i colori sociali nel giallo e nel blu) e un epilogo leggermente sfalsato: nel 1973 subentrò la Innocenti, che giubilò a vantaggio del bianco-azzurro gli storici colori delle “scarpette rosse”, e il Simm lasciò dopo 17 anni e 10 scudetti (oltre a varie coppe, tra le quali la Coppa dei Campioni del 1966, la prima vinta da una squadra italiana); invece fu nell’estate del 1975 che Varese svestì le maglie della Ignis per diventare Mobilgirgi, azienda canturina di mobili che ottenne anche di modificare i colori in bianco e nero. Il ciclo vincente varesino sarebbe proseguito ancora (tra gli orgogli della società ci sono le dieci finali consecutive, con cinque vittorie, nella Coppa dei Campioni detto che la serie d’oro continuò con il trionfo nella Coppa delle Coppe 1979), quello dell’Olimpia, invece, andò incontro a un riflusso e addirittura alla retrocessione in A2, avvenuta nel 1976 con il paradosso che la campagna d’Europa era invece andata bene e aveva portato alla conquista della Coppa delle Coppe.
Per spiegare che cosa fossero quei due marchi, vale la pena di aggiungere che Simmenthal scelse di divorziare perché l’identificazione era ormai strettamente legata alla squadra di basket: pochi legavano il nome alla carne in scatola. E forse, sotto sotto, anche questo poteva dirsi della Ignis, anche se le ragioni dell’addio furono ben diverse: la proprietà del colosso degli elettrodomestici era passata all’olandese Philips; quanto a Giovanni Borghi, alle prese con seri problemi di salute, si spense prematuramente nel settembre 1975, ad appena 65 anni di età.
Che cosa erano i nomi di Simmenthal e Ignis applicati alla pallacanestro? Pur senza oberare di significati extrasportivi una sfida che prima di tutto ha riguardato un rettangolo di parquet dotato di due canestri, è il caso di non fermarsi all’aspetto più logico e banale. Ci possono infatti essere anche letture, diciamo così, trasversali. Da come ho vissuto io quei giorni – in quegli anni ero solo un appassionato del basket – c’è una riflessione principale: Simm e Ignis hanno incarnato il senso di un’Italia che aveva messo del tutto alle spalle i ricordi della Seconda Guerra e che veleggiava sull’onda del boom e della ricerca del benessere. La carne in scatola era qualcosa di generalista, alla portata di tutti; un prodotto anche in linea con una praticità e una velocità di consumo figlia di un’America che stava già esportando i suoi modelli. Ignis, invece, era il marchio dell’elettrodomestico che entrava nelle case degli italiani, semplificando o ottimizzando alcuni aspetti della quotidianità. Era il nome latino del fuoco – e per questo “battezzava” le nuove cucine a gas – ma veniva applicato pure al freddo e al gelo dei frigoriferi: una sintesi straordinaria tra due opposti, un colpo da maestro di un uomo quale Giovanni Borghi, imprenditore ma anche talento del marketing. Quanti sanno, ad esempio, che la scelta dei colori gialloblu per le canotte o le maglie degli atleti dei suoi sport (Ignis era il brand di una vera polisportiva che abbracciava anche ciclismo, canottaggio e boxe, detto che il Cumènda fu anche padrone del Varese calcio) nasceva da una riflessione in chiave televisiva? Nell’era di trasmissioni ancora in bianco e nero, quelle due tinte erano quelle che garantivano la miglior visibilità. Semplicemente geniale.
I derby Simmenthal-Ignis si accesero di rivalità nel momento in cui Varese cominciò a insidiare la storica leadership di Milano. Del resto, era uno scenario voluto dal presidente delle “scarpette rosse”, Adolfo Bogoncelli: aveva intuito che se avesse favorito la crescita di un avversario forte, “vero” e costante nel tempo, ci avrebbe guadagnato prima di tutto l’incertezza del campionato – e in automatico sarebbe cresciuto l’interesse attorno al basket – e in secondo luogo la qualità delle sue vittorie. Di contro, Varese, avrebbe tratto lustro e giovamento dai successi sul rivale di riferimento. Quando nel 1961 la Ignis centrò il primo scudetto, replicato nel 1964, fu chiaro che il basket italiano avrebbe vissuto di questa diarchia, capace di mettere su un piano leggermente inferiore il resto delle concorrenti, a cominciare dalla gloriosa Virtus Bologna. Negli anni gloriosi del Simm, i fantastici Sixties, Varese fu in grado di inserire un cuneo, non prima di aver attraversato alla metà del decennio una crisi di crescita (acuita dal fatto che Borghi, per ragioni imprenditoriali, aveva dato il marchio Ignis pure a Napoli e nella Ignis Sud aveva trasferito alcuni giocatori di punta). Ma a partire dalla stagione 1968-1969, campionato concluso con il terzo, inatteso scudetto, battagliò da pari a pari. Anzi, riuscì a sopravanzare il Simm, che all’inizio degli anni 70 cominciò pian piano a declinare.
Simmenthal-Ignis è stata una rivalità senza quartiere. Si sono messi di mezzo anche personaggi complementari e qui mi viene in mente il grande Aldo Giordani, telecronista inarrivabile e uno dei padri del boom del nostro basket, che era tacciato di essere simpatizzante nemmeno tanto occulto di Milano. Poi c’erano i protagonisti, ovviamente. Dino Meneghin ricorda ancora oggi un’amichevole pre-campionato a Como, quando ebbe un diverbio con Cesare Rubini: “Ero ancora un giovane inesperto e barricadero, decisi di passare davanti alla panchina di Milano e di fare il gesto dell’ombrello al “Principe”, un gesto che mi costò la lavata di capo del mio allenatore, Aza Nikolic, e le scuse al grande Rino”. Rubini era poi l’uomo che a Varese amava entrare in campo per ultimo, poco prima della palla a due. Lo faceva con calma cadenzata e voluta, per poter raccogliere tutti i fischi e gli insulti possibili e immaginabili: per lui erano benzina. E lo stesso Meneghin è stato, spesso e volentieri, l’uomo dei durissimi confronti fisici con Art Kenney, l’americano che nell’ultima parte dell’era Simm incarnò al meglio lo spirito delle scarpette rosse. “Una volta – ricordò Marino Zanatta, ridendo ancora come un matto – se ne diedero così tante che erano ubriachi di fatica. Ad un certo punto mulinavano le mani a vuoto e, scherzando, dissi loro di piantarla perché parevano due che volevano dare la caccia alle mosche”. A furia di pestarsi finì che, nella penultima partita della stagione 1972-73, Meneghin si ruppe il naso cadendo a terra assieme a Kenney. L’Ignis vinse, ma lo scudetto fu deciso allo spareggio e Varese si impose nonostante il suo “totem” sotto canestro abbia dovuto giocare con una maschera ad hoc.
Ma la guerra tra queste due icone del basket ha avuto anche altri terreni. Prima di tutto quello degli sgarbi reciproci, come il soffiarsi i giocatori. Milano volle portare via Nane Vianello – uno dei lunghi che facevano la differenza all’inizio degli anni 60 – e Giovanni Borghi bloccò il trasferimento, costringendolo all’anno di stop previsto dai regolamenti (in realtà al giocatore fu poi concesso di disputare una parte della stagione in serie B con la Robur et Fides, seconda formazione varesina). Milano alla fine ebbe Vianello, ma poco dopo sarebbe stata ripagata con la stessa moneta a causa del “ratto” di Paolo Vittori, passato alla Ignis. E questa saga avrebbe riservato, nel 1981 quando la stagione di Ignis e Simmenthal era archiviata da un pezzo, un altro clamoroso colpo: il trasferimento a Milano di Meneghin, una delle bandiere varesine. Sembrò quasi che quella storia abbia voluto costruirsi un’appendice.
Simmenthal-Ignis – come si è capito da quanto scritto prima – è stata poi una classica da tempi supplementari, ovvero gli spareggi per lo scudetto. La forza delle due squadre era tale che raramente si arrivava al 2-0 negli scontri diretti. Più facile che finissero 1-1 e che l’annata si decidesse su scivoloni inopinati in altri campi. Se il conteggio era pari pure su quel versante, ecco che si arrivava alla “bella” conclusiva in campo neutro. Il Pala-Azzarita di Bologna e il PalaEur di Roma sono state le sedi delle sfide. La prima, nel 1962 a Bologna, vide il trionfo del Simm contro l’Ignis campione uscente: Varese aveva perso la forma nel girone di ritorno; Milano era invece cresciuta e vinse, contro pronostico. Secondo appuntamento nel 1966, a Roma, e finì con il pasticciaccio del famoso caso di Tony Gennari. L’italo-americano, che Varese aveva schierato in coppa come straniero, ottenne la cittadinanza italiana alla vigilia del match. Varese lo utilizzò e sebbene il suo contributo, per quanto importante (10 punti) non sia stato decisivo per una vittoria che fu chiara e larga (+15 alla fine), portò a una campagna di stampa contro la federazione che terminò, dopo mesi, con il 2-0 a tavolino per Milano e l’assoluzione dei dirigenti varesini perché giudicati in buona fede. Si disse che il potere “politico” del Simmenthal alla fine aveva condizionato la situazione e il verdetto. E il bello è che, nonostante gli altri tre spareggi che ci sarebbero stati abbiano prodotto un saldo di 2-1 per i gialloblu ( 1970-71, vittoria di Varese; 1971-72, successo di Milano; 1972-73, trionfo varesino), ancora oggi a Varese si considera il titolo del 1966 legittimamente conquistato e scippato solo dall’abilità di Bogoncelli e Rubini nel muoversi nei meandri federali. Del resto una rivalità che è stata tanto simile a quella che caratterizza certe contrade di Siena, non poteva non avere una storia di riferimento e un simbolo eterno.
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