Ci sono degli uomini – ma forse vorrei chiamarli personaggi pensando alla storia della vita come a un enorme palcoscenico sul quale tutti siamo chiamati a recitare – che si incontrano ogni giorno e non si pone mente al fatto, presi come si è dalle proprie ambasce, del loro essere vicini e di una loro presenza quasi spirituale.
Il professor Emilio Bortoluzzi era un uomo vero e non recitava. Chi, come me, per una trentina d’anni ha avuto modo di incontrarlo quasi quotidianamente come cronista nel reparto di anestesia e rianimazione – dagli ultimi anni Sessanta e per tutta la durata della sua permanenza alla guida del reparto fino al 2002 – traeva solo beneficio dalla sua umanità, dalla sua gentilezza… Suonavo il campanello di una porticina, dove fuori stazionavano spesso anche mamme in un’angosciata attesa, per conoscere che cosa il destino avesse riservato a persone, ragazzi che lottavano per rimanere in vita, talvolta davvero appesi a un filo.
Il cuore pulsava sempre a mille, perché mi rendevo conto della mia inutile presenza di cronista cui interessava solo testimoniare un’esistenza in vita o no, senz’altra significativa partecipazione. Credo che il professor Bortoluzzi, il quale molte volte era lui di persona ad aprire la porta – o sua moglie Stefania, viceprimario, altrettanto gentile – capisse il mio stato d’animo. E mi toglieva subito dall’imbarazzo con il suo sorriso mite di buon papà.
Un giorno mi capitò di incrociarlo – non era molto alto e camminava a passettini con il capo piegato e assorto – tra il padiglione della geriatria e il reparto di pronto soccorso. Lo salutai, ed ebbi l’ardire di fare una battuta, dato che quando ci incontravamo e bussavo alla sua porta lui sapeva bene il perché: professore, dissi, alla larga da lei! Mi guardò per pochi secondi in silenzio, poi mi sorrise come sempre e rispose: Eh, sì!
Lui mi aveva capito. Ma io, forse, almeno fino a quel momento non avevo capito lui.
Mi successe poi, qualche tempo dopo, al giornale, di prendere tra le mani un suo libriccino di poesie che aveva portato in omaggio al direttore. E mi meravigliai forse stupidamente: ma come, un medico della rianimazione che scrive poesie?
La poesia, lo spirito, l’esserci come uomini. Emilio Bortoluzzi –che pure era un esperto della scienza medica, e lo fu da protagonista nel suo campo agli inizi degli anni Cinquanta –, era dunque un poeta, un poeta-medico, e forse era riuscito a trovare una sintesi tra lo spirito, il sogno, la speranza, la poesia appunto, e la concretezza della vita.
Egli non era varesino, era di famiglia benestante veneziana nato – si legge nella sua biografia – in calle dei Fuseri, a pochi passi dal teatro della Fenice. A Varese, tuttavia, dove la mamma lo aveva portato insieme con i fratelli dopo la scomparsa del padre, era cresciuto e aveva studiato, prendendo la maturità classica al Cairoli.
Tra qualche giorno – martedì 11 dicembre – l’Ospedale di Circolo intitolerà a Bortoluzzi, scomparso la scorsa primavera all’età di 97 anni, il reparto di rianimazione, così come – qualche anno fa – una sala del pronto soccorso fu intitolata a un altro medico benemerito varesino: Ermanno Montoli. Piace ricordarli insieme. E vorrei aggiungere anche un altro nome, quello del direttore sanitario dell’Ospedale di Circolo dell’epoca, il professor Giorgio Bignardi, ferrarese, medico, scrittore e artista.
È un merito che Varese ricordi i suoi uomini migliori, o quanto meno quelli che l’hanno resa migliore nel lavoro e nella scienza. E anche nello spirito e nella poesia.
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