Prima ancora che l’euro e l’economia, nella crisi in atto tra Roma e la Commissione Europea la posta in gioco è la democrazia. Se non si comprende questo, o se lo si censura (come sta accadendo in Italia ma non solo), ci si condanna a non capire la situazione. A norma dei vigenti trattati su cui si fonda l’Ue, i bilanci degli Stati membri, e in particolare quelli dell’area dell’euro, sono sottoposti a vincoli cui sovraintende la Commissione Europea.
In teoria la verifica dovrebbe avvenire a posteriori ma in pratica avviene a priori. Il ministro dell’Economia di ciascun Stato membro concorda con la Commissione la sua bozza di bilancio e poi la presenta per l’approvazione al Parlamento nazionale. Questo in pratica significa che i Parlamenti nazionali non sono più sovrani proprio in quella che è la loro originaria e fondamentale competenza. Con in più l’aggravante che mentre i Parlamenti nazionali sono eletti dal popolo e al popolo rispondono, la Commissione – un mastodonte burocratico con ben 23 mila dipendenti e un bilancio annuo di circa 145 miliardi di euro — è composta da persone nominate dai governi degli Stati membri, una per ogni Stato. Attualmente i commissari europei sono perciò ben 28 (compreso finora anche un commissario britannico) alcuni con grosse competenze e altri con competenze irrisorie, essendo i primi o tedeschi e francesi oppure di piccoli Paesi molto sensibili agli intessi della Germania e della Francia. Tipico al riguardo il caso dell’attuale presidente della Commissione, il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Si aggiunga che il Parlamento Europeo, l’unica istituzione democratica dell’Unione, non soltanto non sceglie i commissari ma non ha nemmeno diritto di iniziativa in campo legislativo. Può solo infatti prendere in esame quanto gli viene proposto dalla Commissione.
È questo il quadro in cui si situa la crisi in corso tra il governo italiano e quella che viene sbrigativamente chiamata l’«Europa», ovvero la Commissione; e dietro ad essa innanzitutto la Germania. Le obiezioni che la Commissione fa alla bozza di bilancio dello Stato italiano per il 2019 non sono prive di qualche buon motivo tecnico. Il governo di Roma vuole aumentare la percentuale del deficit fino al 2,4 per cento sul prodotto interno lordo per finanziare politiche espansive nella speranza di rilanciare l’economia nazionale, e quindi di ridurre tale percentuale nel futuro. La Commissione non ci crede e domanda un bilancio più “sobrio” sostenendo che l’Italia deve porsi quale primo obiettivo il blocco e anzi la riduzione del suo ingente debito pubblico.
Sulla carta la “filosofia” cui si ispira il progetto di bilancio italiano 2019 non è irragionevole, ma presuppone una capacità di spesa rapida ed efficace delle risorse generate facendo deficit che sin qui Roma non ha dimostrato di avere. E i due partiti al governo, pressati come sono dall’urgenza di soddisfare le promesse fatte ai loro elettori, non hanno né tempo né voglia di impegnarsi preliminarmente in complesse e faticose riforme di struttura dell’amministrazione statale.
Tra Roma e Bruxelles sono questi giorni di trattative tanto fitte quanto “subacquee”. Al momento sembra che il governo Lega – 5 Stelle, dopo aver sostenuto per settimane che non avrebbe accettato alcuna riduzione del deficit programmato (2,4 per cento sul prodotto interno lordo, Pil), adesso sia disposto a rinunciare a qualche punto decimale. Salvini, che sino a ieri si dichiarava irremovibile, adesso, con una frase che ricorda i responsi delle antiche Sibille, si è messo improvvisamente a dire che non è “un problema di decimali ma di serietà e di concretezza”. D’altra parte l’attuale situazione, con l’economia che non riprende un po’ in tutta l’eurozona e non solo in Italia, e con le incognite legate all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, consiglia a tutti di non arrivare a una rottura plateale. La prospettiva più probabile è che si arrivi infine a un qualche accordo sia pure di facciata in attesa delle votazioni per il rinnovo del Parlamento Europeo del prossimo maggio 2019, e della scadenza nel successivo settembre del mandato dell’attuale Commissione Europea.
Resta però intatto il problema della legittimazione democratica delle strutture di governo dell’Unione Europea. L’esperienza sta confermando ciò che da troppo tempo si era preteso di ignorare: che cioè la tecnocrazia può funzionare finché non ci sono grandi problemi, ma non nelle epoche di imponenti trasformazioni come la nostra. Allora soltanto la democrazia garantisce da un lato tutta la forza legittima e dall’altro tutta la capacità di comporre ragionevolmente i vari interessi che sono necessarie per gestire le grandi svolte a costi sociali sopportabili e senza sacrificio della libertà.
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