Come un regime autoritario può angariare la vita di un popolo. Ci aiuta a ricordarlo Stella Bolaffi Benuzzi, una brillante scrittrice torinese trapiantata a Varese (il marito si occupava di reattori nucleari al Centro Ricerche di Ispra) nel libro autobiografico “Il mio romanzo familiare”, Golem Editore, 167 pagine, 15 euro. È la testimonianza drammatica, vivace e velata d’ironia delle peripezie occorse a una famiglia ebraica, un’incalzante cronaca di vite angosciate, di fughe, soprusi, mortificazioni e infine rivincite morali. Su cui è bene riflettere per evitare che gli errori del passato possano ripetersi. La storia insegna che il rischio esiste.
Stella Bolaffi è la nipote di Alberto Bolaffi, fondatore nel 1890 della rinomata azienda filatelica torinese e fornitore di casa Savoia. Ed è figlia di Giulio, comandante partigiano nell’alta Val di Susa col nome di battaglia di Aldo Laghi, un eroe della Resistenza che prima delle leggi razziali emanate nel 1938, giusto ottant’anni fa, aveva indossato la camicia nera. Stella da bambina non conosceva bene il padre, spesso assente per motivi di lavoro. Lo ricordava autoritario e severo prima della guerra, la mamma morta di tubercolosi. Alla fine del conflitto lo scoprì combattente antifascista, leggendo i nove diari in cui Giulio descrisse le sue imprese partigiane.
Il romanzo – con prefazione di Aldo Cazzullo del Corriere della Sera – rievoca la vita di due bambini in fuga, il vagabondare di rifugio in rifugio senza avere accanto le rassicuranti figure dei genitori, affidati all’istitutrice che chiamavano zia e consapevoli che in caso di cattura, scrive Stella, “potevano accopparci”. La bimba di allora, diventata scrittrice, ricorda la rete clandestina nelle valli di Lanzo che aiutava gli ebrei, gli antifascisti, i militari ricercati dell’ex esercito italiano e gli inglesi paracadutati con documenti falsi, denaro e informazioni per passare in Francia. E sullo sfondo accenna alle imprese della formazione Stellina, la IV Divisione Giustizia e Libertà, che il comandante Bolaffi battezzò pensando alla figlia o forse i partigiani intitolarono a una capretta con una macchia sulla fronte.
Stella e il fratello Alberto, destinato ad ereditare l’impero filatelico, scoprirono a fine guerra le persecuzioni subite nei campi di prigionia e nei propri diritti civili, la forzata chiusura della ditta gestita “da giudei”, la difficoltà di trasmettere di padre in figlio la licenza per vendere i francobolli, lo scaricabarile da un ufficio all’altro della pratica che finì alla Direzione Demografia e Razza del ministero dell’Interno. Per non dire degli ostacoli incontrati dagli accademici israeliti per essere reintegrati nelle cattedre da cui erano stati cacciati dal regime, tra cui lo zio Roberto, e le peripezie burocratiche per riavere i beni requisiti.
Spiega l’autrice: “Non volevo scrivere un libro di storia, l’ho già fatto in precedenti occasioni con “La balma delle streghe” edito da Giuntina nel 2013 e “Giulio Bolaffi un partigiano ribelle” che pubblicai con Piazza nel 1995. Volevo invece raccontare come ho vissuto quando ero troppo piccola per capire cosa stesse accadendo. Ho aperto gli occhi alla Liberazione quando apparvero i primi manifesti fotografici di Auschwitz. Non erano tempi facili, c’era in tutti la voglia di dimenticare ed Einaudi rifiutò di pubblicare “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Io scrivo per dare sollievo a me stessa, come facevo da bambina quando tenevo nello zaino, sempre pronto per la fuga, il sussidiario e il quaderno per i compiti”.
Ma il libro non è solo un racconto di guerra. Citando Ariosto, Stella rievoca “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori” che hanno popolato la sua vita. Un’esistenza attraversata da una folla di comparse e di personaggi noti, artisti, avvocati, giornalisti, Umberto Agnelli e Magda Olivetti compagni di scuola al liceo D’Azeglio, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini che correva in auto saltando il semaforo rosso. Da quei giorni lontani, addolciti da un velo di romantica ironia, il racconto risale fino a oggi. Stella, laureata in lettere antiche e filosofia, psicoanalista, ex consulente dei servizi socioassistenziali del comune di Varese e giudice esperto del tribunale dei minorenni di Milano, non dimentica ciò che il padre scrisse il 9 gennaio 1944 in una lettera al CNL di Susa: “Faccio il partigiano perché desidero contribuire a creare un’Italia libera e una nuova civiltà che consenta di vivere a ognuno secondo le proprie aspirazioni. Penso ai miei figli che desidero possano godere di pari doveri e di uguali diritti di tutti gli altri”.
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