Ho l’idea che i giornalisti debbano fare un solo mestiere: il loro. Anche perché non si tratta d’un mestiere, ma d’una vocazione. Esagero? Di prim’acchito sembrerebbe di sì. Uno può pensare: che vocazione è mai quella, per esempio, di raccontare fatterelli locali, proporre testimonianze minori, dar conto d’eventi periferici? Lo è, lo è. Basta mettervi cura del dettaglio cronachistico, rispetto verso gli attori d’una notizia, tensione all’obiettività. Che non esiste mai, e tuttavia la si avvicina o allontana secondo l’impegno profuso nel lavorare quella speciale/delicata materia chiamata informazione.
I giornalisti sono questo. I non giornalisti, che continuano a dichiararsi giornalisti, sono altro. Sono, facciamo il caso, quelli che, dopo anni trascorsi a dissertare dei politici, diventano essi stessi politici. Imponendo una banale riflessione: di quale credibilità erano titolari quand’esprimevano critiche o elogi a una categoria cui hanno successivamente aderito? Peggio ancora se si verifica (s’è verificata tante volte) la retromarcia: giornalisti che sono diventati politici e poi, lasciata la politica, sono ritornati a praticare il giornalismo. Di quale credibilità sperano di godere, definendosi al di sopra delle parti dopo aver militato in una parte?
Scrivo dell’argomento -scusandomi dell’incapacità a essere lieve come vorrei- perché non basta reagire con sdegno formale alle intemerate dei vari Di Maio e Di Battista che con acrimonia/burbanza indicano al pubblico disprezzo gli scribi, su carta e online. Bisogna far seguire alle parole gli atti. Anzi, far precedere i primi alle seconde. E dunque rimuovere le lusinghe dell’arruolamento partitico; non scordare che il giornalismo è un servizio pubblico svolto volontariamente da privati; distinguere tra civiltà di rapporti fra chi si occupa del medesimo settore (politica, economia, cultura eccetera) e sottaciuta complicità dei medesimi.
La professione del giornalista non è uguale ad altre. Implica un surplus di senso etico, doveroso quando si sceglie di controllare il potere, essere gl’interlocutori/il tramite dell’anima popolare, andare alla ricerca del vero, difendere il diritto universale alla dignità adoperandosi in modo non pedante ma serio; non dimesso ma umile; non ipocrita ma prudente; non scandalistico ma coraggioso. Se inteso diversamente, il nostro mestiere (la nostra vocazione) si conquista la legittima autoironia d’un reporter americano entrato nella storia, Elbert Hubbard, che chiosò il noto paradosso: giornalista è la persona il cui lavoro consiste nel separare il grano dalla pula e nel far stampare la pula. Scelta talvolta privilegiata dagli approssimativi, dai faziosi, dagl’inadeguati. Per i quali resta pertinente l’aforisma ebraico: il sapiente sa quel che dice mentre lo stupido dice -stampa, mette in rete, divulga- quel che sa.
Riconosciute le derive della superficialità, i giornalisti meritevoli di tale qualifica (la maggioranza) rimangono titolari d’un grande patrimonio d’orgoglio. Non è vero che molti di loro ingannano il lettore, sapendo esprimere con destrezza un pensiero che non hanno. Ce l’hanno, e semmai faticano a trovare chi è disposto a permettergli d’esprimerlo. Al contrario di quanto succede a RMfonline, grazie allo spirito libertario d’un editore laicamente cattolico. Ops.
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