Invecchio. Lo capisco. Lo so. Lui, il mio organismo, manifesta il suo invecchiare con crescente evidenza. Anche a prescindere dalle mie precarie condizioni cardiache, sono più debole, più esposto a malesseri, acciacchi, malattie, affaticamento, pause coatte, difficoltà di concentrazione prolungata. Vedo meno, sento meno, mangio meno, faccio meno. Senza sonniferi non dormo. Sono sempre più svogliato davanti all’attività fisica e alle attività intellettuali intensive. Tutte le funzioni corporee e alcune funzioni cognitive che un tempo mi illudevano di disporre di risorse prestazionali «normali» e sempre accessibili, diminuiscono in intensità, estensione, efficienza, efficacia.
Io sono il mio organismo: sono una totalità biologica in declino che si avvia alla fine. Quella psiche un tempo chiamata anima o spirito, come se potesse sussistere qualcosa di distinto dalla corporeità, non è che una parte di quella totalità biologica. L’unità spinoziana di mente e corpo, così scandalosa nel XVII secolo, è oggi un’ovvietà incontrovertibile.
Ma i due poli, per quanto uniti nella finitudine invalicabile della vita, hanno un’interazione problematica, di cui il linguaggio è parte (lo si vede dai termini in corsivo). A suo tempo l’adultità del mio corpo ha preceduto quella psichica. Oggi la mia psiche non sembra ancora invecchiare in sincronia con quello del suo corpo.
Contrariamente alla quarta età, nella terza – la mia – il corpo invecchia più in fretta della mente. Fatico ad alzarmi o a piegarmi sulle ginocchia, ansimo salendo le scale, la minzione è più problematica, quando scrivo a penna la mano ha dei lievi tremolii, al punto che poi non riesco a decifrare ciò che ho scritto. L’andropausa toglie intensità agli affetti, rende blanda la passione e meno comunicativo l’amore.
La quarta età, che non ha confini anagrafici, è un incubo. Vivo in uno stato di tenue ma persistente allarme. Temo la perdita dell’autosufficienza, il decadimento del sistema neurologico e lo svaporare del cervello. A volte il timore è insopportabile. Ho disposto di essere accompagnato in Svizzera. Una fine assistita tutelerà la mia dignità, la qualità della vita di chi dovrà prendersi cura di quanto resterà di me e l’obbligo di evitare sprechi irragionevoli nell’impiego delle risorse pubbliche per sanità, assistenza e pensioni.
La vecchiaia non è però solo una necessaria sottrazione. È anche una potenziale addizione, e persino moltiplicazione, se si conservano alcune facoltà: l’intelligenza, l’apprendimento, la memoria, la capacità di rappresentare sé e il mondo cogliendone i mutamenti e di vivere sentimenti, desideri, emozioni e fantasie.
Sono tre volte fortunato. Della fortuna non si mena vanto, non è un merito; ma non conviene gettarla alle ortiche.
La mente sembra ancora integra e al riparo da degenerazioni neurologiche e da certe conformazioni psichiche che insidiano gli anziani ma che non è semplice riconoscere (spesso anzi si mascherano). Ho ancora accesso alla gioia di vivere, benché ne siano cambiate fonti, condizioni e circostanze. Frequento gli amici di una vita; mantengo legami con i familiari; partecipo alla vita pubblica; vado a concerti e mostre; conservo un cordone ombelicale con la metropoli che mi illude di proteggermi dallo sprofondare negli abissi del provincialismo e del localismo; mi piace conversare e ridere; ancora studio e leggo volentieri; guardo vecchi film; mi muovo quasi solo a piedi; faccio brevi passeggiate; a letto, prima di addormentarmi, al buio, nel silenzio che mi è concesso, ascolto musica con attenzione. Faccio ancora alcune «cose» che amavo fare nella giovinezza e nella maturità.
Sono scampato al pericolo della tossicodipendenza dalle reti sociali, succedanei che sottraggono tempo prezioso e qualità alla socialità vera e ci espongono al rischio di abbandonarci a un esibizionismo senile, di accanirci in un’illusoria volontà di protagonismo, di non controllare un narcisismo fuori tempo massimo e di divenire creduloni, irrazionali, invadenti, carognosi e cafoni.
In una parola «resisto». Tento di preservare quell’essenzialità che eredito dal mio io (il «me») che è stato; e sin dove posso cerco ancora di imparare e di lavorare sui miei difetti, o almeno a pensare che ho ancora tempo, motivi e lucidità sufficienti per provarci. La piena disponibilità del tempo – il tesoro della terza età – si orienta a un piacere di vivere più sottile e delicato, e supplisce al calo delle capacità prestazionali.
Vi sono segnali che vanno interpretati e accolti. L’ars senescendi – il capitolo dell’ars vivendi oggi persino più importante dell’ars moriendi – consiste nel saperne decifrare i segnali, sottoporli al vaglio critico e all’autocontrollo e farne discendere, sin dove possibile, scelte conseguenti di autoprotezione. Per ogni allarme ciascun lettore può provare a scoprire da sé (e per sé) degli esercizi di riflessività coerenti con la propria storia, i propri vissuti e le circostanze oggettive che li suscitano.
Si tratta di spie a luce molto intensa, anche se pochi pensano a guardare i display informativi. Queste spie non necessitano di un ordine gerarchico. La prima che mi viene in mente, forse perché mi riguarda di più, è il calo dell’intraprendenza e la parallela crescita della dipendenza dagli stimoli esterni, da iniziative e sollecitazioni o richieste altrui. Non si tratta di un cedimento alla pigrizia, ma della conversione in accidia di una carenza di stimoli tesi al soddisfacimento, all’arricchimento dell’io, alla cura di sé e degli altri e alla trasformazione di sé.
Su un piano complementare porrei la perdita, totale o parziale, della capacità di reagire alle circostanze avverse e alle difficoltà psicologiche, endogene o esogene che siano. Il passo successivo – il cedimento alla depressione o il suo cronicizzarsi – ci fa sprofondare in un invecchiamento infelice, non sereno o addirittura dolente e facilita nel tempo, in assenza di difese preventive, il sopravvenire di gravi danni neurologici.
Occorre sapersi proteggere. Ma non tutte le protezioni generano gli effetti sperati. L’esercizio introspettivo e il lavoro su di sé sono indispensabili. Altre protezioni somigliano all’erezione di alte mura perimetrali. I danni causati da difese scorrette, quali nutrire un’indifferenza crescente verso il mondo della vita o peggiorare le impronte del proprio carattere, possono essere enormi. L’abulia, lo sperpero di tempo, la rassegnazione, la paura, l’ossessività, la compulsività e la sciatteria (anche in senso esistenziale) sono gravi, ma nulla è peggiore del rifugio nella solitudine. Nemmeno la convivenza è una garanzia, quando sussiste, specie se abdica alla sfida dell’impegno reciproco e prosegue per inerzia, abitudine o incapacità di praticare o costruire un’alternativa. Lo smagrirsi delle relazioni sociali attive e non coatte (come là dove la condivisione del tempo e dello spazio è forzata: un ospizio, un nucleo familiare ricomposto perché mancano alternative migliori, dei coniugi che non si parlano più se non del clima, dell’animale di casa e del sugo della pasta…), lede la qualità dell’invecchiamento, rende la vita che resta più greve, mesta e carica di rassegnazione, e innesca una deriva che riduce molti a sopravvivere in attesa della morte.
Una cattiva vecchiaia si ha anche quando fa emergere incistati rancori, biliosi e velenosi livori, strascichi di antichi conflitti e di torti, piccoli o grandi, inflitti o subìti. L’irascibilità, la mancanza di reciproca sopportazione, il desiderio di poter consumare piccole ritorsioni, l’abbandonarsi a feroci sarcasmi per il gusto di ferire, il trasformarsi del legame affettivo in competizione sadomasochista sono fenomeni comuni tra le coppie anziane, anche se – è probabile – in misura minore rispetto al passato.
In chi invecchia il passato, il presente e il futuro non trovano più un adeguato equilibrio. Il passato è oggetto di nostalgie patologiche. Il ritorno ai dolci ricordi della giovinezza porta a idealizzare il passato, oscura il futuro e prosciuga il presente. La nostalgia maledice inutilmente il presente anche quando – come accade a una consistente minoranza di italiani in questi mesi – ci allarma, prostra, umilia e addolora. Riducendo l’ignoto al noto la nostalgia non contribuisce a formulare correttamente le domande poste dalla contemporaneità; non dà modo di vedere il positivo del presente, obbligandoci a censurare il negativo del passato nell’indistinta melassa dei bei tempi andati. Il vecchio che combatte nelle trincee del passato è un patetico sopravvissuto a se stesso, ormai inutile al mondo.
Questa postura logica non aiuta a vedere nel presente un processo che non prepara solo sventure, decadenza e regressioni, e a intravedere un agire collettivo che, sottraendosi alla coazione a ripetere, si apra a possibilità impreviste e creative. I vecchi devono sapersi fare indietro.
Secondo Francis Bacon siamo troppo prudenti, troppo incerti, solo limitatamente saggi e gravemente indecisionisti, e così ostacoliamo il cambiamento del mondo. Prendiamone atto, specie ora che siamo il 35%. Scadiamo, come il latte e la verdura. Non ipotechiamo il futuro altrui.
Alcuni comportamenti sono più ovvi: ripetere le stesse cose senza notare che la fluidità della memoria si va cristallizzando in cliché di seconda mano; parlare sempre del proprio passato; arrendersi all’ipocondria; rifugiarsi tra le mura domestiche; ragionare in termini autoconservativi; perdere la volontà di apprendere; aggrapparsi a surrogati della vita di relazione; sostituire il vuoto della solitudine e della noia con l’abuso palliativo della tv, delle connessioni mediatiche e dei passatempi; ficcare il naso nella vita altrui; tener d’occhio lo sconosciuto che passa o parcheggia sotto casa; trascurare l’igiene personale, l’abbigliamento e la cura dell’abitazione; adottare rituali ossessivi e meccanici; sottrarsi a quanto genera dispiacere a causa nostra (tipo il non guardarsi più allo specchio); abbandonarsi a giovanilismi grotteschi e a squallidi mascheramenti della propria età che indicano uno stato di immaturità psichica al passaggio alla vecchiaia, un’età giustamente elogiata da grandi pensatori come Cicerone, Seneca, Montaigne, de Beauvoir, Améry, Bobbio e Hillman.
Tutti questi comportamenti ci avvisano che stiamo rischiando di tirare a campare e di perdere il desiderio di una buona vita consonante con i ruoli e le forze della nostra età. La conseguenza più brutta è la dissipazione della risorsa-tempo, riducendola ad attesa della fine. Diamoci una mossa, perché per i vecchi non vale più il detto: «Non è mai troppo tardi». La vecchiaia non è una malattia, non è una privazione assoluta e nemmeno un’onta; se lo diventa è solo per colpa nostra.
Mi rivolgo anche a chi vecchio non è. Salutismo non è solo correre, andare in palestra, stare a dieta, astenersi da droghe, alcool e fumo per tenersi in forma; è anche leggere, studiare, osservare, gustare, vivere con pacatezza, sottrarsi all’ossessione del «principio di prestazione» e dell’amor habendi e all’imperante truzzaggine. Queste sì malattie, una tirannide devastante e gravissima. Siete tutti chiamati a essere – con Hegel – «il vostro tempo nel modo migliore».
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