Sembrerebbe logico pensare che tanto più il momento è difficile, tanto meno chi regge le sorti d’un Paese riempie le giornate viaggiando e presenziando, dichiarando e comiziando. L’uomo di Stato, nell’immaginario collettivo d’una volta e chissà se in qualche individualità d’oggi, viene percepito/raffigurato come chi studia imponenti carteggi nel suo austero ufficio; s’affanna a evadere una pratica dopo l’altra; scambia opinioni riservate e competenti con i colleghi istituzionali. Tale è lo stile universalmente noto d’un governare degno di chiamarsi così: senza perdite di tempo, senza esibizionismi pubblici, senza esagerazioni parolaie. Il tutto all’insegna d’un motto dell’antica sapienza romana: age quod agis, fai quello che stai facendo con passione e rigore, evitando di smarrirti in ciò che non compete alla tua vocazione. O comunque al tuo ruolo.
Quest’essenzialità sobria è rintracciabile nei vertici del nostro pretenzioso esecutivo del cambiamento? No, troviamo il contrario. Trasferte all’estero, comparsate televisive, chiacchiere radiofoniche, comunicazioni verbali e fotografiche sui social, incursioni a una manifestazione qui e a un evento là. Fuori dei Palazzi dove dovrebbero risiedere/lavorare, i vicepremier Di Maio e Salvini s’inseguono in un continuo sorpasso a colpi di spot, passando da una ribalta illuminata dai fari mediatici a quella successiva. In ogni circostanza i due ministri certo argomentano delle sorti dell’Italia, ma in prevalenza non di quelle presenti, bensì di quelle passate e future. Passate, con l’obiettivo di raccontarne il peggio possibile. Future, allo scopo di promettere al popolo un fausto destino. Addirittura la felicità, com’è capitato di affermare al sognante titolare dello Sviluppo economico.
Al di là delle valutazioni sul merito dei loro annunzi, li si vorrebbe generosi nel realismo, che esprime una cifra politica trasversale/comune agli orientamenti dell’elettorato. Invece esibiscono un trend opposto, proseguendo con ogni mezzo la campagna elettorale per il Parlamento di Roma che ritenevamo chiusa il 4 marzo scorso. Invece non ha mai avuto termine, proiettandosi verso il 26 maggio dell’anno venturo, quando saremo chiamati a rinnovare il Parlamento dell’Europa. E dunque la propaganda fa aggio sul resto, l’azzardo -vedi la sciagurata manovra economica- sostituisce la prudenza, l’endemico conflitto tra partner trova giustificazione nel motivo fondante dell’intesa di convenienza (pactum sceleris): sto con te adesso per prepararmi a non starci più dopo. E chi se ne frega della violazione di Trattati internazionali condivisi, d’impegni disattesi, di credibilità perduta non solo a Bruxelles, ma in tutte le capitali del Continente. Si tira dritto, tanti nemici tanto onore, e via (e viva) con gli slogan duceschi.
Restano sullo sfondo, ormai drammatici, i problemi dell’Italia che ha votato gialloverde e di quella che ha votato per bandiere differenti, ma rivendica l’appartenenza a una medesima identità nazionale. Se presi talvolta in considerazione, essi lo sono unicamente per innescare mosse propagandistiche, guadagnare consenso momentaneo sull’avversario, distogliere lo sguardo da emergenze di cui s’era annunciata la soluzione e sostano purtroppo nella corsia d’attesa. Prima che un errore politico, si tratta d’una manchevolezza etica. Né pare immaginabile, salvo quando la già avviatasi catastrofe produrrà l’effetto valanga, un qualunque ravvedimento operoso. Il mutare opinione e il dare ascolto a chi ti corregge è un atteggiamento da uomo libero: vorremmo che lo dicesse Giuseppe Conte, l’inverosimile presidente del Consiglio. Purtroppo lo diceva l’imperatore filosofo Marco Aurelio, un sovranista vero.
Ps
L’Europa fa il suo, sanzionando le trasgressioni dell’Italia. Gl’italiani fanno il loro, non comprando più i Btp. La domanda a Salvini e Di Maio è retorica: che cosa aspettate a fare le vostre valigie?
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