Tra le interpretazioni del fascismo c’è quella lessicale e giustamente negativa. Il termine comunismo, che pure in certi periodi della sua storia gli ha assomigliato in quanto a violenza e a sottrazione delle libertà individuali, per quanto riguarda il significato non ha avuto la stessa evoluzione.
Sicché – scriveva qualche tempo fa in un suo breve saggio Sergio Romano – fascista è una parola passepartout che tutti hanno licenza di usare; comunista è una parola brevettata e a denominazione di origine controllata. Fra dieci anni, di questo passo – anticipava lo studioso, storico, ex ambasciatore –, tutti potranno essere, in qualsiasi momento, accusati di fascismo, ma nessuno potrà essere definito comunista se opporrà il proprio diritto di veto: nel match linguistico di fine secolo ‘comunista’ batte ‘fascista’ due a zero.
A scompaginare l’assunto, più o meno un quarto di secolo fa, intervenne non senza successo Silvio Berlusconi, previo lo sdoganamento e l’inserimento nell’arco costituzionale di quella An-Fiamma tricolore che pure con il fascismo d’antan qualcosa aveva da spartire. Così Berlusconi elevò la parola ‘comunista’ a sinonimo di antidemocrazia, oggetto dei suoi strali e della sua veemente campagna elettorale.
La mossa sulla scacchiera politica decisa a Arcore trova ancora molti consensi nel campo della destra e pure dei movimenti cosiddetti populisti che oggi vanno per la maggiore. Ma l’antagonismo in negativo dei due lessici (o dei due orientamenti “politici”) fascismo-comunismo di raro è stato superato dal primo a svantaggio del secondo.
Alcune settimane fa ha cercato di mettere un po’ di ordine sulla questione Paolo Mieli con un editoriale sul Corriere della Sera: attenzione, ha affermato in buona sostanza Mieli, a tacciare di fascismo gli attuali movimenti populisti o, addirittura, forze politiche di governo. È sbagliato e può essere pericoloso. Certi atteggiamenti (non condivisibili) vanno contrastati, anche in modo duro se è il caso. Ma non si può parlare di fascismo che è tutt’altra cosa.
E altra cosa lo è, di sicuro, da un punto di vista storico. Paolo Mieli, uno dei migliori allievi di Renzo De Felice, il quale con uno studio monumentale e certosino durato una vita rivoltò il fascismo di Mussolini come un calzino, parla di un fascismo che in Italia, presumibilmente, si concluse il 25 luglio del 1943. Prima ancora, dunque, che un anno e mezzo più tardi, Benito Mussolini ormai ridotto a un quisling di Hitler nell’alta Italia, venisse ucciso dai partigiani e appeso a testa in giù a piazzale Loreto a Milano. E ciò dovrebbe valere pure per un’applicazione delle leggi razziali, che furono la più alta vergogna del fascismo e della monarchia.
Non esiste, ed è sostanzialmente vero, negli odierni populismi quel “genere” di fascismo sconfitto dalla storia. Così come non esisteva, a parte vaghe somiglianze, nel regime di Franco in Spagna o di Salazar in Portogallo o nelle dittature militari sudamericane. Altri regimi, appunto.
Eppure, Umberto Eco, nonostante tali puntualizzazioni, riprese la dicitura di “fascista” pubblicando, non molto tempo fa, un suo libriccino, sintesi di un simposio organizzato dai dipartimenti di italiano e francese della Columbia University, il 25 aprile del 1995, per celebrare la liberazione dell’Europa. I concetti in seguito al convegno erano apparsi su importanti riviste.
Eco nel suo intervento parlò di “Ur-Fascismo, cioè di fascismo primordiale, un fascismo che con connotazioni abbastanza facilmente riconoscibili riappare talvolta nel corso nella storia. E non a caso intitolò il suo libriccino, portato alle stampe da La Nave di Teseo, “Il fascismo eterno”. Per noi italiani, parafrasando un’analisi famosa della “comunista” Rossana Rossanda negli anni bui e terribili delle Brigate rosse, si tratta di una sorta di album di famiglia.
Così Umberto Eco, scomparso due anni fa e autore della sua analisi una ventina d’anni prima, presenta alcune caratteristiche dell’”ur-fascismo”: dal culto della tradizione, all’antiparlamentarismo, al rifiuto della critica, alla paura della differenza e degli intrusi… Al populismo qualitativo: “In una democrazia – sosteneva Eco – i cittadini godono di diritti individuali… Per l’ur-fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il ‘popolo’ è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la ‘volontà comune’… Nel nostro futuro si profila un ‘populismo qualitativo tv o Internet…’”.
Riprendendo in parte questi concetti espressi da Eco, di recente, la giornalista e scrittrice Michela Murgia ha dato alle stampe per Einaudi un volumetto “Istruzioni per diventare fascista”, che ha come sottotitolo una annotazione ancora più precisa: “Fascista è chi il fascista fa”. Non sappiamo, ovviamente, come si sarebbe comportato Benito Mussolini nell’epoca di Facebook e di Twitter. Ma è plausibile che un personaggio come lui, aduso a sfruttare tutte le opportunità della comunicazione, quindi a farsi fotografare a torso nudo su una mieti-trebbia o a esibirsi un atletico crawl di poco al largo di Riccione, si sarebbe dotato di una serie inimmaginabile di felpe. Anche se, difficilmente, si sarebbe fatto ritrarre a letto insieme con Claretta Petacci.
Senza contare il famoso detto dell’arditismo “Me ne frego” profferito a ogni piè sospinto dall’attuale ministro dell’Interno, che è proprio il contrario di quanto un inascoltato don Lorenzo Milani cercò di insegnare con il motto inglese “I care”, cioè “Mi sta a cuore”; motto che Walter Veltroni elesse come parole d’ordine in un congresso – siamo agli inizi degli anni 2000 – dell’allora partito dei Democratici di sinistra.
Non un chiamarsi fuori e elevarsi a potenza. “I care”: a dimostrare una sensibilità, una volontà di confronto e di partecipazione democratica che in sé probabilmente custodiscono anche un liberale e un irrinunciabile principio del dubbio.
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