La ricchezza pluralista costruita nei secoli di storia patria della nostra società civile è una delle caratteristiche fondative della complessità italiana che la contraddistingue nel mondo occidentale.
In questo secolo, in questa nostra società attuale così particolare e così in preda a convulsioni populiste, in questo nostro tempo dove prevalgono o sembrano prevalere solo le paure e il rancore, dove la disintermediazione l’ha fa da padrone, tuttavia, c’è da chiedersi a ragione ed in ragione della nostra storia anche se passata, se abbiamo ancora bisogno dei corpi intermedi e se siamo in grado di presentire un loro nuovo e diverso protagonismo.
L’Italia è uno strano Paese e di questo sono consapevoli non solo le altre nazioni occidentali, in primis quelle europee, ma anche gli italiani stessi.
Siamo giunti tardi all’Unità. Il concetto stesso di nazione è stato per troppo tempo appannaggio solo di élite e non del popolo e per decenni le contrapposizioni tra parti hanno caratterizzato il nostro modo di essere o meglio di non essere una nazione, un popolo, un Paese. A questo poi, come se non bastasse, dobbiamo aggiungere che per lungo tempo il fascismo ha preso in ostaggio l’idea di patria e di nazione ridicolizzandolo talvolta mentre altre lo ha reso ideologico e impresentabile.
Il nostro è il Paese dei guelfi e dei ghibellini, dei guelfi neri e dei guelfi bianchi, dei comuni contro l’impero, delle signorie e dei principati, delle repubbliche marinare e dei regni, dei cattolici contro lo Stato unitario, del fascismo contro i rossi, dei repubblicani contro i monarchici, dei rossi contro i bianchi eppure, eppure malgrado tutto questo o forse grazie a tutto questo la nostra società civile è sempre stata capace di grandi spinte innovative sul piano della autorganizzazione e capace di reagire a tutti i momenti di crisi che la penisola ha vissuto.
La capacità della società civile italiana di produrre cambiamento è stata spesse volte mitizzata è vero, però un dato è certo e scientificamente provato. Dove la società civile è più viva, è più protagonista, sviluppo economico e benessere sono andati di pari passo e hanno prodotto anche Istituzioni più solide, più credibili e più efficienti.
Non voglio qui ritornare su un annoso quesito al riguardo e che è stato in parte protagonista del dibattito politico in passato e mai risolto. E cioè se la società deve essere guidata dalla politica o se, viceversa, deve essere la società civile a produrre effetti sul mondo politico che li accoglie e li trasforma in norme e decisioni. Ben altro spazio bisognerebbe avere a disposizione per affrontare un simile tema, che riguarda l’idea stessa di libertà e che riguarda il principio di sussidiarietà.
Quello che vorrei rimarcare qui è un altro aspetto che credo, in questo momento, dovrebbe essere recuperato al dibattito politico e affrontato in maniera non banale.
Il superamento del processo di disintermediazione e il recupero, in una dimensione nuova e più moderna, di un nuovo modo di essere di tutti i corpi intermedi e quindi non solo di quelli che storicamente abbiamo visto protagonisti della e nella nostra società.
La “società del rischio”, come l’ha analizzata con lungimiranza Ulrick Beck, passando poi per la “società liquida” di Bauman hanno cambiato radicalmente i paradigmi interpretativi gettando nello scompiglio studiosi, osservatori e sicuramente politici e ceto dirigente.
A tutto questo si aggiunge la rivoluzione prodotta da internet e dalle implicazioni comunicative che oggi, soprattutto, viviamo e che fanno sì che la “rete” abbia depotenziato paradossalmente la democrazia rappresentativa, così come nata nell’800, per favorire il falso mito della democrazia diretta senza, tuttavia, risolvere né il tema della partecipazione, né, sopratutto, quello della rappresentanza legata al merito e al sapere.
Insomma, malgrado tutto questo e tutti questi problemi che sono certamente “filosofia”, ma con grande implicazioni pratiche, il tema, frutto della nostra storia e della nostra tradizione civile, sul ruolo od anche sull’attuale esistenza dei corpi intermedi a me pare dirimente per lo sviluppo stesso del nostro Paese, oltre che per la sua capacità di generare anticorpi in grado di frenare le pulsioni autoritarie che sono presenti nel corpaccione del Paese e che mirano ad alterare la qualità della nostra democrazia per la prima volta da che esiste la Repubblica.
Sono certo che se ci si sofferma unicamente su quelli che sono i tradizionali corpi intermedi, quelli istituzionali (partiti, agenzie di rappresentanza, sindacati, eccetera) il discorso può divenire banale e superficiale o quanto meno scontato. La crisi che li ha colpiti nel corso degli ultimi trenta anni li ha resi certamente poco influenti e ai margini del dibattito, ma credere che tutto si riduca a questo, io penso, faccia torto alla nostra complessità così come anche alla nostra tradizione.
Personalmente sono convinto che la nostra società civile anche se talvolta appare “incivile” ha in sé tanta e tale ricchezza nascosta da riuscire a far sì che tutto questo possa produrre cambiamenti visibili e soprattutto incidere sul mondo politico e sul ceto dirigente.
C’è tutto un mondo rappresentato, ad esempio, dal cosiddetto terzo settore che in questi ultimi due decenni si è poi sviluppato e ha prodotto, sul terreno del welfare, nuove presenze e nuove modalità.
Non solo. Pensiamo a tutto quello che gravita intorno a ciò che è cultura. Anche questa è società civile che si auto-organizza. C’è chi fa teatro, c’è chi fa sostegno al patrimonio storico e artistico del nostro Paese, c’è chi fa semplicemente cultura sostenendo l’importanza del leggere e c’è chi fa cultura parlando della bellezza del nostro Paese e facendo in modo di accendere dei riflettori su luoghi e situazioni sconosciute.
Così come c’è tutto un mondo attento alle tematiche ambientali e di protezione del nostro territorio che si organizza al di là dei tradizionali canali istituzionali o al di là delle organizzazioni storiche nate negli anni settanta sulla spinta della presa di coscienza che le nostre risorse ambientali sono limitate e consumabili.
E c’è tutto un mondo fatto di volontariato che oggi la fa da protagonista di fronte alle emergenze della nostra umanità dolente, quella fatta da immigrati, senza fissa dimora o semplicemente di chi non arriva alla fine del mese.
Di recente Stefano Zamagni scrivendo della quarta rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e che produrrà cambiamenti nei prossimi anni (quella per intenderci che vedrà come protagonista, tra le altre, l’intelligenza artificiale) ha sostenuto la tesi che il terzo settore nato per assolvere una funzione sociale e cioè alzare il tasso di giustizia sociale ha ora un ruolo più importante da svolgere. Mettersi in mezzo, imboccare la via di mezzo tra chi è fanatico delle tecnologie e non si pone i problemi che queste portano e chi viceversa, pessimisticamente, vede solo i rischi.
Non solo. Zamagni scrive anche qualcosa di più impegnativo. Scrive che il terzo settore oggi è in ritardo perché non ha capito che la quarta rivoluzione non modifica solo i processi produttivi, ma cambia anche il modello culturale e il mindset delle persone.
Così suggerisce tre ambiti dove il terzo settore si deve impegnare. Adoperarsi per preparare la digitalizzazione della società, utilizzare l’intelligenza artificiale di terza generazione come forza di bene, evitare la ristatalizzazione del terzo settore stesso.
Accanto alla domanda iniziale, se abbiamo bisogno ancora dei corpi intermedi, ne aggiungerei ora un’altra.
È possibile tenere insieme il nostro Paese, la nostra società, senza la funzione di mediazione svolta dai corpi intermedi e senza di loro in quanto “cuscinetto” tra le Istituzioni e l’individuo? E ancora le Istituzioni possono reggere a lungo la pressione degli individui senza la presenza dei corpi intermedi?
Qui forse più che mai dovrebbe essere la politica ad intervenire, a provare a dare una risposta di senso, ma anche tentare di uscire dal “presentismo” per avere uno sguardo rivolto al futuro.
In questo contesto l’attuale momento caratterizzato da forti dosi di populismo appare anch’esso elemento da interpretare e da ricondurre ad un paradigma, sia pur nuovo, ma necessario per comprendere il ruolo da giocare di corpi intermedi, ma anche della politica. Il populismo attuale, a me pare, non frutto dello scontro tra élitè e popolo, ma bensì dello scollamento tra politica e società. E in epoca di politica liquida il rischio, il rischio più elevato è quello di cadere nel pericolo di trasformare l’arte del possibile, che è tipica della politica, in promessa dell’impossibile e quindi di produrre solo delusione rispetto alle aspettative che solleva. Ecco quindi che siamo nel mezzo di un cambio d’epoca ed è per questo che viviamo la stagione del populismo. Lo viviamo perchè in questo cambio da un lato abbiamo l’eccitazione per il livello delle innovazioni, ma dall’altro viviamo l’incubo della crisi di civiltà. Solo la politica può produrre le bussole per attraversare il deserto del cambiamento.
Hanno scritto di recente De Rita e Galdo in “Prigionieri del Presente”: “Il XXI secolo, con focolai di guerre non più mondiali ma regionali, si è aperto con il cortocircuito di un capitalismo che, nell’assolutismo del suo trionfo, ha finito per ridimensionare la democrazia sulla base di una rottura epocale tra la politica e la società. Qui sta il nocciolo duro della crisi di civiltà, alla quale la politica non potrà dare risposte fino a quando resterà prigioniera della dittatura del presente, e se non riuscirà a ricostruire la piramide della rappresentanza e le connessioni con il corpo sociale. Restituire fini, separati dai mezzi significa riportare la politica alla sua funzione vitale, rimetterla in condizione di interpretare e accompagnare un nuovo immaginario collettivo. L’alba di una nuova epoca”.
De Rita e Galdo scrivono di alba di nuova epoca e lo fanno con una buone dose di ottimismo. Io penso molto meno prosaicamente che oggi noi abbiamo bisogno di recuperare il senso della speranza e in questo anche la capacità di scommettere su una società civile fatta da tante piccole e grandi ricchezze e nello stesso tempo sulla virtù italica che si manifesta quando tutto sembra perduto. La capacità di trovare le risposte ai nostri limiti nella nostra cultura umanista, una cultura che fa si che l’essere al centro del Mediterraneo fa si che si è crocevia non solo di popoli ( come è sempre stato nella nostra storia ), ma anche di idee. Scommettere sull’incontro, su un nuovo incontro tra le Istituzioni e i corpi intermedi, scommettere sulla possibilità di guarire la ferita che ha diviso la politica dalla società civile è scommettere che il populismo di destra e di sinistra possa essere superato attraverso un processo di ricomposizione e di coesione sociale. È scommettere ancora sul nostro Paese sapendo che, comunque, questo è il tempo che ci è dato da vivere e che lo dobbiamo vivere al meglio e non con lo sguardo rivolto al passato.
Roberto Molinari, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Varese
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