A volte l’insipienza è così smisurata da somigliare al colpo di genio di un comico vero. Non è dato sapere se la gaffe di Danilo Toninelli sul fantomatico tunnel del Brennero finirà citata in uno speciale manuale di storia. Dileggiare i grillini è un po’ come sparare sulla Croce Rossa: bella forza farsi gioco di chi non può proteggersi dalla propria nullaggine! Nel rispetto della Convenzione di Ginevra dobbiamo risparmiarci le ovvietà. Certo: un paese che vanta un ministro simile è andato ben oltre la frutta, il dolce, il caffè, il sorbetto e persino il limoncello che chiude le grandi abbuffate; ma saperlo non ci aiuta. È vero: c’è da ridere per non piangere; ma forse ridiamo perché abbiamo consumato la scorta di lacrime da ben prima. Sì: a furia di flat tax, reddito di cittadinanza, pensioni a quota 100, sanatorie, condoni e altri sperperi assistenzialistici che, attaccati all’avvizzita tetta dello Stato, allargano il deficit senza generare crescita (a maggior ragione in un quadro di persistente stagnazione), qui rischiamo un disastro economico e sociale irreversibile; ma nemmeno lo scriverne e parlarne suscita il dovuto allarme. Non ci aiuta il sorriso e nemmeno il timore. Dobbiamo anche star lontani dal corto circuito degli alibi: quegli stuzzicadenti dietro i quali i puffi sopravvissuti allo tsunami di marzo si nascondono. Anziché chiedersi perché la loro offerta politica nella precedente legislatura sia stata così scadente e spesso sbagliata da suscitare quelle pulsioni di scontento e rabbia che hanno portato al potere i Bonafede e i Bussetti, gli ultimi seguaci di Renzi insistono a lamentarsi degli elettori, accusati di non aver capito la grandezza del Lider Maximo e la portata storica dei suoi gloriosi successi, o se la prendono con i comunicatori, incapaci di averla spiegata o inclini a non spiegarla.
Serve un’analisi un tantino più raffinata. Quale forma di argomentazione persuasiva ha adottato Toninelli (d’ora in poi Aquilino), e cosa insegna e svela la sua gaffe? Ascoltiamo il ministro: «Mi sono soffermato su un dossier che ritengo essere molto importante che è quello del tunnel del Brennero. Sapete quante merci italiane e quanti imprenditori utilizzano con trasporto principalmente ancora su gomma il tunnel del Brennero e purtroppo dobbiamo subire limitazioni settoriali da parte delle autorità del Tirolo che danneggiano fortemente l’economia italiana. Per questo ho appreso con molto piacere come la Commissione europea potrà dare una mano all’Italia nel ristabilire le corrette regole della libertà della circolazione delle merci».
Il discorso spaccia per vera una realtà inesistente. Ma vi è uno zoccolo duro nell’argomentazione che trascende la gaffe e la ispira. Da politico puro, Aquilino ha appreso come massaggiare chi ne ascolta il messaggio. Esordisce nei panni di ministro laborioso e documentato; quindi liscia il pelo agli imprenditori e tranquillizza i mercati; poi attacca il nemico; infine sposa la retorica europeista.
Aquilino sa distinguere un traforo da un valico, ma non ha pensato di cautelarsi prima di parlare del grande utilizzo e dei grandi benefici economici del tunnel stradale e ferroviario tra Italia e Austria. Parla unendo la forza dell’abitudine al deficit di apprendimento sul campo. Chi le ha sparate grosse per un decennio, ricevendo in premio palate di voti, porta in sé una coazione a ripetere che non sa controllare nel nuovo ruolo. A che vale documentarsi per un artista delle fakenews? Si va così, all’impronta, superficialmente, in modo naïf, come uno studente impreparato che inventa. Poi c’è la sindrome d’onnipotenza del parvenu: se il re chiama Cacasenno a dar consiglio a corte, se Ignoto Uno in tv risponde esattamente alla domanda: “Qual è la capitale della Francia?”, e si trova in tasca d’amblè qualche decina di migliaia di euro tra gli entusiastici applausi del pubblico, l’omino qualunque si convince di essere un genio che dispone della «scienza infusa». Un proverbio invita a guardarsi dall’asino che alle elementari è sempre stato il primo della classe. L’apprendimento esige un senso dei propri limiti che difetta tra i parvenu che dal nulla sono diventati tutto pescando il jolly. Ma questo argomento convince chi usa il senso critico come il pasticciere lo zucchero. Per il pubblico plaudente conta invece sentirsi confermato: guarda com’è bravo, com’è sicuro del fatto suo quando risponde: «Parigi!». E confortato: in fondo sono bravo come lui, siamo uguali, mi posso fidare. Per la postura emotiva e valoriale del «pubblico-elettore» il modo di porgere l’argomentazione con parola ferma e spigliata conta più del suo contenuto. Il riconoscimento e l’identificazione sono il segreto del successo retorico dei politici di professione. Insomma, il ministro grillino sa fare il suo mestiere. Aquilino non si cura di chi lo sbertuccia. Non fa conto sull’assenza di un’opposizione ormai svaporata o screditata. Gli preme rinnovare il consenso del suo elettorato. Sa che i mondi politici e culturali sono oggi frantumati e incomunicanti, permeabili solo da volubili emozioni, e che proprio a quella incomunicabilità i parvenu come lui devono fortuna e potere. Il suo è un partito di credenti al riparo da ogni dubbio; lui è l’officiante di turno che ben conosce l’irresistibile inclinazione a credere dei devoti. È questo scudo protettivo, questa «testuggine» il privilegio di quella gravissima patologia politica e morale che i politologi chiamano «leaderismo». In fondo siamo sempre lì, al «Credere, obbedire, combattere», all’«Usi ad obbedir tacendo», al «Perinde ac cadaver», al «Come dice il compagno Togliatti»… Le leggende che tengono unito il partito sono l’infallibilità degli oligarchi in ogni declinarsi del loro trasformismo, la bontà del sistema prestabilito e governato con mano invisibile dalla Casaleggio & Associati, la perfetta selezione di gerarchi e candidati visibili solo in logge semiclandestine chiamate meetup. A narrazioni non diverse ricorsero anche la Lega di Bossi, il primo Berlusconi e il primo Renzi: deità circondate dalla comunione dei santi. Si dice che la fede sia una speranza; qui sembra un aggrapparsi alla disperazione.
Protetto dagli oligarchi, oligarca tra oligarchi che non sono più svegli di lui entro un partito verticale e proprietario, Aquilino sa che l’elettore non lo punirà: perché è ormai assuefatto alle migliaia di bufale sparse a piene mani sin dal giorno che il partito grillino fu fondato; e perché la rete informativa che si dipana verticalmente, con sistematicità staliniana, lungo i meetup, i blog, le invettive dei social e gli articoli di valenti agitprop coprirà tutto. Lo spirito critico è sempre rivolto contro altri, mai contro se stessi. L’autocritica non esiste. E infatti la seconda parte del discorso ricorre a un nemico. La formula della perpetua invettiva attizza i fedeli vacillanti. Ah, se l’Austria non ci mettesse i bastoni tra le ruote, a passare sotto il tunnel sarebbero milioni di milioni! Non cinque, ma tutte le stelle di Negroni. Ribaltando il proverbio, quando il professionista della politica trova un nemico trova un tesoro.
Aquilino ha fatto carriera con la sua camaleontica versatilità. No TAV, No Terza Variante di valico a Genova, Sì TAP, l’ILVA boh e, quanto al tunnel del Brennero, già c’è e presto la maggioranza lo percorrerà su rotaia e non più su gomma. Il trasformista uso a solleticare l’estremismo si compiace nel mostrarsi moderato e rassicurante. Cosa c’è di meglio per lui, a questo fine, del rivolgersi in positivo agli imprenditori? Per continuare a rivaleggiare con gli alleati leghisti occorre lusingare un bacino elettorale poco frequentato, spesso bollato come una rete di «poteri forti» capeggiati da Soros e dai Benetton.
In ultimo Aquilino menziona la Commissione Europea (non l’Unione, si noti). Quando indossa la maschera del sovranista estremo attacca ad alzo zero le regole che impone. Quando indossa quella del moderato la elogia per il sostegno che dà all’Italia quando pretende il rispetto delle regole. Ora protezionista ora liberista: la retorica è una gomma da masticare che può essere tirata secondo le convenienze.
In mano a Bouvard e Pécuchet la politica finisce per dissolversi. Di questa dissoluzione leghisti e grillini sono solo gli ultimi interpreti; il rosario è lungo da sgranellare. Ritroverà qualche consistenza se si libererà dalla retorica. Ma tutto va in direzione contraria. Dovremmo ripartire dalle famigerate élites, ammesso che ve ne siano ancora. Con le casalinghe di Voghera, i pony di Milano e gli sfaccendati di Pomigliano non andiamo da nessuna parte. Per ora accontentiamoci di smontare le procedure argomentative selezionate dai loro spin do tors e proviamo a offrire discorsi più asciutti e rigorosi agli elettori, trattandoli come soggetti pensanti e non come un pubblico.
Viva Quintino Sella.
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