Sono una risorsa preziosa del Paese e spesso sono usati per parlare male del Paese. Hanno studiato, si sono costruiti in Italia, poi vanno all’estero, si affermano, diventano protagonisti di carriere di prestigio, li troviamo in posti di alto livello. Onorano l’Italia e la capacità – nonostante il gusto diffuso dell’autofustigazione – di esprimere intelligenze, portatori di cultura, professionalità, bagagli professionali invidiati e in virtù dei quali sono richiesti all’estero e valorizzati in cabine di regia, posti di responsabilità, cattedre dei più storici atenei.
Ecco, uno di questi interpreti dell’italianità nel mondo è il varesino Federico Schneider, un uomo che non si accontenta mai di una vetta raggiunta e che continua a rimettersi in cordata. Ha fatto la gavetta, si è mosso in molti campi perché è uno che ha molte attitudini e sa eccellere dove decide di confrontarsi: per esempio, la musica, la multimedialità, la comunicazione in generale, l’arte del creativo. Il suo campo d’azione, però, è la cultura, la lingua, il nostro sommo Dante e tutto il patrimonio che hanno fatto splendere nei secoli il nome del Belpaese nel firmamento mondiale.
A un certo punto della vita, Federico ha deciso la svolta ed è andato in America: s’è insediato sulla cattedra di italianistica dell’Università di Mary Washington in Virginia. Tra i molti meriti che Federico si è conquistato con la sua serietà, l’applicazione, la bravura e la sensibilità di cui è dotato, ce n’è uno che mi ha colpito quando gli ho chiesto di raccontare la sua bella storia: sì, mi ha risposto, purché non sia il tentativo spesso praticato da molti giornalisti di usare un caso come una clava contro l’Italia. Andare all’estero spesso è una necessità per sbarcare il lunario ma mettersi in discussione in un altro contesto e confrontarsi, aprirsi, insomma il bisogno di nuove frontiere non è un limite ma un plusvalore.
E questo ci dice in fretta di che pasta è tatto Federico che spiega così la sua scelta: “Ritengo anche molto importante osservare che un cervello, che frutta lontano da casa, non è mai un investimento a fondo perso, ma semplicemente un investimento a lungo termine, che, magari non direttamente e non subito, contribuisce, a suo modo, alla riuscita del Paese, se non altro in termini di prestigio”
Come e perché ha scelto gli Stati Uniti? Che cosa offrono di diverso e di più allettante gli States rispetto ad altre opzioni?
Premetto che il motivo che inizialmente mi spinse negli Usa ha poco a vedere con la mia carriera d’oggi. Andai negli Stati Uniti per studiare musica e in particolare la musica jazz e per formarmi come musicista professionista. Vent’anni fa gli Usa offrivano programmi formativi in questo campo che non esistevano in Italia, quindi molto allettanti per me. Ad ogni modo, quando più tardi i miei interessi si sono spostati sull’italianistica, ho potuto toccare con mano quanto stimolante fosse la proposta statunitense anche in questo campo. Mi riferisco in particolare ai programmi di masters e dottorato di ricerca, che integrano formazione e tirocinio, e alle borse di studio di cui possono usufruire i candidati ammessi a questi programmi; ma soprattutto mi riferisco alle possibilità di inserimento nel mercato del lavoro che poi si presentano.
Quali le principali difficoltà da superare? Ritrovarsi in un Paese così grande e celebrato può far sentire smarriti. Lei come si è trovato?
Per quanto riguarda le difficoltà da superare, la lista è lunga. Vorrei però concentrarmi su un aspetto che, stando in accademia, ho costantemente sotto gli occhi: si tratta del modo del tutto diverso dal nostro con cui negli USA si produce conoscenza e, soprattutto del come la si divulga. Mi riferisco in particolar modo alle humanities o discipline umanistiche, che mi riguardano direttamente e che sono da tempo asservite alle logiche imprenditoriali, che governano l’accademia statunitense. Questo ha tutta una serie di ramificazioni negative a livello pedagogico: per esempio, la creazione di corsi e addirittura di corsi di specializzazione che rispondano alle tendenze (ma forse dovrei dire mode) culturali del tempo più che ai doveri formativi dell’università. Qualche esempio? Si veda l’inflazione di corsi universitari focalizzati su Lady Gaga, Harry Potter, o altri fenomeni di tendenza che caratterizzano l’offerta di molte facoltà di lettere. Potrei anche fare riferimento all’inflazione di corsi di specializzazione dedicati alle donne (woman studies) o alla sessualità (gender studies), a cui sottoscrivono le più svariate facoltà; per non parlare di quelli dedicati a gay, lesbiche, e via discorrendo. Così, invece di produrre e divulgare vera e propria conoscenza della disciplina, si usa la disciplina per produrre o divulgare ciò che è politicamente corretto e che quindi “vende”. Il risultato, però, è stranamente paradossale: tanto è vero che oggi assistiamo a una crisi conclamata delle discipline umanistiche nelle università statunitensi, con programmi di dottorato che vengono eliminati in blocco e addirittura interi dipartimenti che vengono drasticamente ridotti. Quindi c’è evidentemente qualcosa che non va con questa strategia.
Il saldo deve essere stato positivo o largamente all’attivo se ha deciso di rimanervi per vent’anni.
Il saldo è senza dubbio positivo. In questi vent’anni gli Usa mi hanno dato la possibilità di acquisire non una ma due professionalità, di studiare in università prestigiose e, infine, di ottenere anche una cattedra, cioè un posto fisso in università. Ad ogni modo, vedere il saldo positivo non mi impedisce certo di guardare con lucidità, come ho appena fatto, alle difficoltà oggettive che caratterizzano l’esercizio della mia professione. Per quanto riguarda invece sacrifici o rinunce particolari, non penso di averne fatti. Ho lavorato sodo, questo sì!
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