Nessuno lo dice, però molti lo pensano. Il governo del cambiamento potrebbe essere non questo pateracchio tra Cinquestelle e Lega, ma quello (forse un altro pateracchio, nel caso si vedrà) che rimettesse insieme il centrodestra pre-elettorale e una pattuglia di cosiddetti “responsabili” (opportunisti) in Parlamento.
Le sorti dell’alleanza gialloverde dipendono dall’esito del braccio di ferro fra Roma e Bruxelles. Se l’Ue tiene botta, e Salvini-Di Maio pure, si giungerà all’inevitabile rottura. Nulla di sconvolgente sul piano politico, giacché le sanzioni da irrogare all’Italia arriverebbero a primavera inoltrata e a campagna propagandistica ormai conclusa per il voto europeo. Qualcosa d’inquietante invece sul piano economico-finanziario: la probabile/sicura reazione negativa dei mercati al crash negoziale smutanderebbe il Paese. Che fare, allora?
Forse sarebbe tardi per qualunque rimedio. Dunque, meglio rifletterci in precedenza. Di qui l’idea –scartato il subitaneo affondamento della legislatura- che una consistente frangia della Lega carezza, sottovoce e tuttavia determinata: rompere coi grillini (gli spunti non mancano, visti i quotidiani litigi), ricucire il rapporto con Berlusconi, fare ponti d’oro alla Meloni. E infine darsi alla conquista della cinquantina di voti indispensabili ad avere la maggioranza in Parlamento. Voti da pescare dove? Beh, innanzitutto a casa del Pd. Nei cui ranghi ce ne son tanti, di deputati e senatori, pronti a buttare via il sacchetto dei pop corn e ad uscire dal cinema dove Renzi gli aveva suggerito/intimato d’impoltronarsi, godendo lo spettacolo d’un esecutivo che tracolla. La scusa è pronta: sacrificio di schieramento (obbligato cambio di bandiera) nel supremo interesse delle sorti nazionali. Si tratterebbe d’un “sovranismo patriottico”, e quanti se la vogliono bere, se la berranno.
Il resto del manipolo degli altrimenti detti “coscienziosi” (furbi) è individuabile nelle file pentastellate, tra le quali la spaccatura risulta profonda ben al di là dell’affiorante dissenso. C’è chi si dice arcistufo di stare con Salvini, e chi invece vorrebbe starci superando gl’imbarazzanti distinguo giornalieri. Dunque, perché non partecipare a una diversa partnership giudicata in armonia con il sentire finora soffocato? Il trasloco d’intesa avverrebbe poi sotto l’incalzare d’un rovescio riguardante tutti gl’italiani, in buona parte disponibili -messa una mano sul portafogli, oltre che sul cuore- a capire l’inversione di tendenza politica, e perfino auspicandola.
Ogni gioco appare lecito, nell’incertezza cronica che nuvoleggia sulle nostre cupe giornate. Lo sanno per primi Di Maio e soci, che a loro volta sondano con riservatezza il terreno di praticabili alternative. Ma l’unica sponda d’approdo teorico è la minoranza del Pd, da sola non sufficiente a garantire i numeri di una maggioranza orientata a sinistra, com’è nelle corde di quella base grillina cui spesso dà voce il presidente della Camera Fico. Sullo sfondo del variegato scenario, è comprensibile come qualunque mossa del governo sia soggetta a valutazioni pungenti da numerosi versanti, non necessariamente extraitaliani. All’Europa di simili maneggi (governo del cambiamento o cambiamento del governo) importa zero; le importa invece che siano rispettate regole a suo tempo liberamente/convintamente sottoscritte. Perché nessuno è fesso, anche fuori dei confini tricolori.
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