In questi giorni, dovendo scegliere un testo da proporre in lettura ai miei studenti, ho ripreso in mano il dialogo di Platone intitolato Gorgia. Protagonista indiscusso è il solito Socrate, che, con la consueta calma, arriva in ritardo a casa dell’aristocratico Callicle. Socrate e l’amico Cherefonte sono giunti in ritardo, perché si sono attardati nell’agorà. Il filosofo, lo sappiamo, ama discutere, predilige il dialogo, che affronta con spirito laico, prospettando per l’indagine razionale una dimensione sociale ed una funzione civile. A casa di Callicle ha appena terminato la sua esibizione il sofista Gorgia da Lentini. Si è esibito. Ha mostrato ai presenti tutta la sua abilità oratoria. È un vero uomo di spettacolo, al punto che potrebbe tranquillamente ripetere il suo discorso a beneficio dei ritardatari. Questi due personaggi, Gorgia e Socrate, interpretano evidentemente due modi differenti di intendere il fare filosofia: l’uno viene dalla piazza; l’altro da una scena che sembrerebbe quasi teatrale e pertanto non ammette il confronto.
La sua irrefrenabile curiosità, spinge Socrate ad interrogare Gorgia in merito alla sua arte e ai contenuti del suo insegnamento. Quest’ultimo si definisce un esperto di retorica. Talmente esperto da poterla insegnare. Quale sia l’oggetto e lo scopo di questa sua arte è chiarito dopo un progressivo metterne a fuoco i confini: la capacità di convincere gli altri con le proprie parole.
Che Gorgia sia un esperto conoscitore del potere persuasivo della parola è noto ai lettori di quel suo bellissimo esercizio di stile conosciuto col titolo di Encomio di Elena. Qui Gorgia, confutando tutti gli argomenti che potrebbero confermare il giudizio negativo su colei che, come si legge nell’Agamennone di Eschilo, procurò la distruzione di navi, uomini e città, giunge a dimostrare che l’eroina greca andrebbe lodata anziché biasimata. La parola, afferma Gorgia nel suo Encomio, è un gran dominatore, che con un corpo piccolissimo e invisibilissimo, sa compiere cose divinissime. «Un discorso che abbia persuaso una mente – continua Gorgia –, costringe la mente che ha persuaso, e a credere nei detti, e a consentire nei fatti».
Chi è un retore? – si chiede ancora Socrate. Da quanto ha detto il suo interlocutore, il retore sarebbe «uno che, di qualunque cosa parla, sa persuadere una folla, non perché la istruisce ma perché la convince». L’arte di Gorgia, pertanto, non consisterebbe propriamente in un’arte, ma in un’abilità fondata sulla pratica: «con varie seduzioni e adescamenti cerca di abbindolare la nostra ignoranza».
L’abilità seduttiva di coloro i quali costruiscono bei discorsi si è manifestata ripetutamente nel corso della Storia. Uno dei testi, secondo me, più efficaci per avvicinarci a quei fenomeni di ipnosi collettiva che hanno spinto intere masse tra le braccia di abili persuasori è il racconto lungo di Thomas Mann, Mario il mago. Lo scrittore lo pubblicò nel 1930 ed il racconto prende spunto dal mutato clima che aveva riscontrato in Italia, sul finire degli anni Venti, quanto aveva trascorso le vacanze estive a Forte dei Marmi con la sua famiglia. Ad agosto, in una località balneare di fantasia, viene annunciato lo spettacolo del Cavalier Cipolla, «forzatore, illusionista e prestidigitatore».
Nel corso dello spettacolo, la volontà del mago si fonde sempre più con quella del pubblico, sino a dare l’impressione di essere lui ad eseguire gli ordini degli spettatori o a farsi guidare da loro:
«La capacità, diceva, di rinunziare a se stesso, di trasformarsi in strumento, di attenersi a una incondizionata e perfetta obbedienza, è solo il rovescio dell’altra di volere e comandare, è la stessa, identica capacità: comandare e ubbidire rappresentano insieme un solo principio, una indissolubile unità; chi sa ubbidire, sa anche comandare, e inversamente; un concetto è compreso nell’altro; ma il lavoro, durissimo ed estenuante lavoro, è in ogni modo opera sua, del duce e organizzatore, in cui la volontà diventa obbedienza e l’obbedienza volontà, perché nella sua persona trovano origine entrambe; per questo il suo compito era infinitamente gravoso.»
Ho l’impressione che nel corso di questi ultimi decenni, all’insegna di una nuova stagione salutata come «post-ideologica», i nuovi politici siano sempre più simili ad abili imbonitori, a raffinati adulatori, a esperti tessitori di parole dalla straordinaria capacità ipnotica e seduttiva. Non c’è verità nelle loro affermazioni, non ci sono buone ragioni o solidi argomenti nei loro proclami. C’è l’insistere martellante su parole d’ordine, che non si compongono in discorsi, ma assumono la forma incisiva dello slogan.
Tuttavia, non va dimenticato che, per quanto ammirevole sia l’abilità di chi è in grado di sedurre e convincere gli altri con le proprie parole, a volte può comportare qualche controindicazione. Il risveglio di chi ha addormentato la propria ragione per abbandonarsi alla volontà altrui può volgersi in tragedia.
Il Cavalier Cipolla, come racconta Thomas Mann, nel corso del suo spettacolo, invita a salire sul palco Mario, cameriere di un noto caffè del posto. Il povero Mario viene indotto a credere che il vecchio e deforme cavalier Cipolla sia la sua amata Silvestra al punto da baciarla (baciarlo) su una guancia. Il pubblico ride ed applaude. Ma nel momento in cui Mario riprende coscienza di sé, è turbato e sconvolto. Scende dal palcoscenico e, all’improvviso, esplode due colpi di pistola all’indirizzo del mago. «Un finale di terrore, un finale catastrofico», chiosa il narratore.
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