Non sappiamo se il governo gialloverde resisterà. Sappiamo che non resiste la credibilità del vicepremier Di Maio, ormai in uggia alla base dei Cinquestelle, scortato dalla diffidenza del sodale Salvini, crocifisso perfino dalla stampa amica. Di Maio non ne indovina una da tempo. Tra ossessioni di complottismo e balconate sudamericane, ha cominciato il fallimentare avanti-indré (avanzate mediatiche e indietreggiamenti obbligati) assicurando la chiusura dell’Ilva, poi richiedendo l’impeachment di Mattarella, successivamente confermando che la Tap non si sarebbe fatta; a seguire, la denunzia d’una manina abile a stravolgere la manovra economica, l’affermazione che le banche in difficoltà non otterranno assistenza dallo Stato, l’accusa a Draghi d’essere antitaliano e di avvelenare il clima del Paese. Avventurosi assalti alternati a goffe ritirate. Si potrebbero elencare ulteriori esempi di go and stop (forse è questo il cambiamento, rispetto allo stop and go). Qui e là: sì ai condoni edilizio e fiscale, sì alla lottizzazione Rai propedeutica a quella delle presidenze di Consob e Antitrust, sì agli F35 in attesa -scommettiamo?- del sì alla Tav. La conclusione appare semplice: l’incapacità del tipo -arrivato ad affermare che sta messianicamente sostituendo la povertà con la felicità- a ricoprire la carica di capo dell’M5S e di ministro, a rappresentare il voto d’oltre il trenta per cento dei connazionali, a interpretare un ruolo da rinnovatore nei fatti anziché a parole. Nonostante la buona volontà, inadeguato. Come scrisse una volta l’Economist di Berlusconi, adesso pentendosi di quel titolo: Unfit. Oggi si profila (si erge) un Unfit 2.0.
Da risorsa, come si diceva all’epoca d’oro del centrosinistra a proposito delle novità, Di Maio è diventato un problema. Risolverlo non sembra facile. Dentro i Cinquestelle, la soluzione potrebbe essere il cambio con Di Battista, ma per praticarla bisogna passare da un ricorso alle urne, che oggi non conviene ai grillini. Fuori dei Cinquestelle, potrebbe essere l’apertura della crisi di governo, che però Salvini ha interesse ad evitare. Non è intenzionato a ricostituire un esecutivo grazie al sostegno di Berlusconi: col vento in poppa dei sondaggi, meglio aspettare un nuovo giudizio popolare nel 2019 per prendersi il consenso dell’intero centrodestra e fare il presidente del Consiglio dovendo rendere conto in esclusiva a sé stesso.
Dunque lo stallo è destinato a continuare: Di Maio, pur se talvolta surreale/imbarazzante, risulta essenziale per Salvini in attesa di più ghiotte occasioni. E Salvini, pur se s’atteggia a virtuale/malaccetto presidente del Consiglio, è ormai imprescindibile per Di Maio. Ragjoni di reciproco calcolo indicano che simul stabunt simul cadent: staranno insieme e ruzzoleranno insieme. Il loro destino sarà diversamente determinato solo da un eventuale precipitare della situazione economico-finanziaria, ciò che peraltro anche gli antipatizzanti della strana coppia non si augurano. Significherebbe che l’Italia è sull’orlo del burrone, o addirittura ha già iniziato a scivolarvi dentro.
Resta il quesito di fondo: ma perché un partito che si organizza per vincere le elezioni e mette in programma di governare il Paese non prepara una classe dirigente all’altezza dell’agognato progetto? Faciloneria, superficialità e dilettantismo alla lunga si pagano. Talvolta, nemmeno tanto alla lunga. È il caso illustrato alla perfezione da Di Maio, a sua insaputa il peggior nemico dei Cinquestelle. Purtroppo anche del popolo italiano, e non a sua insaputa: chi lo ha scelto, sapeva cosa l’aspettasse. Se non lo sapeva, avrà almeno imparato a distinguere fra illusioni e realtà: uno spread che va allargandosi a dismisura, non certo a causa dei poteri forti o dei bolsi euroburocrati. Il congiurato è un altro.
Ps
In cinque mesi lo spread è aumentato di 130 punti; la Borsa ha perduto cento miliardi e le banche il 36 per cento del loro valore; i rendimenti dei Btp decennali sono passati dal 2,90 al 3,36%; eliminati 40 mila posti di lavoro a tempo determinato rispetto ad agosto 2017; indice di fiducia delle imprese calato a -1,7; tra aprile e agosto prestiti contratti di 80 miliardi di euro; nessun aumento del pil nel terzo trimestre 2018, non succedeva da quattro anni; 100 miliardi di capitali fuggiti dall’Italia e in Svizzera si fa la coda per aprire conti correnti in franchi. È la decrescita infelice.
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