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Parole

VERGOGNA

MARGHERITA GIROMINI - 26/10/2018

vergognaDizionario etimologico alla voce “vergogna”: dal latino verecondia, perturbazione penosa e umiliante che prova l’animo consapevole di commettere, o di esser per commettere, o di aver commesso, alcuna cosa da riportarne disonore o avvilimento, o biasimo, o beffe. Anche, “sentimento penoso e umiliante che l’uomo prova dal non essergli ben riuscita un’opera, un’impresa, dall’aver errato riconoscendo che la causa è stata l’inesperienza, l’ignoranza, l’imprevidenza… omissis”.

La vergogna è un sentimento inattuale e fuori moda in un società dove uno spazio ben maggiore ce l’hanno la spudoratezza, la sfrontatezza, la convinzione di poter fare e dire qualunque cosa in nome della libertà individuale.

Il sentimento della vergogna mi appartiene ancora: lo provo – solo un piccolo esempio – quando non ho il coraggio di difendere qualcosa che dovrei invece sostenere. Ma più spesso per l’indifferenza che rende apatici e disinteressati alle vicende umane.

Appartengo alla categoria dei deprezzati “buonisti” ma devo prendere atto che la vergogna si è defilata insieme al pudore, suo fratello minore, secondo una definizione del professor Marco Belpoliti, sentimento che oggi si manifesta notevolmente affievolito.

Non so se è disagio o vergogna la sensazione di impotenza che provo allo spettacolo di quei politici che si rimangiano, ma sempre a fronte alta, proprie perentorie affermazioni del giorno prima.

O la “perturbazione” di fronte a chi, pubblicamente, mente sapendo di mentire, e che fa spregiudicato uso di fake news al fine di stroncare un avversario politico.

Provo a proporre qualche breve riflessione con l’aiuto della sociologa Gabriella Turnaturi: non è scomparsa la vergogna, è “solo” diminuita la sua rivelanza sociale e culturale, sia a livello pubblico sia a livello privato. È diventata un’emozione che non vale la pena esibire, dal momento che risulta ben più conveniente celarla. Inutile cercarla nei luoghi e nei comportamenti dove la si poteva trovare in passato, quando era strettamente legata ai concetti di onore e dignità.

Capita che la vergogna si presenti sotto forma di malcelato senso di inadeguatezza sociale perché non ci si sente valorizzati a sufficienza dal mondo: non si è la persona di successo che si vorrebbe, non si possiede il look del vincente, non si occupa il posto adeguato ai propri desideri, non si è abbastanza furbi per fare la giusta carriera.

Così chi si ammala deve vergognarsi della propria fragilità, il vecchio può trovare insopportabile il peso della propria età, una persona in stato di bisogno si sente affranta all’idea della propria dipendenza.

Si prova meno, o nessuna vergogna, invece, a raccontare i fatti propri sul treno, in mezzo alla strada, in TV, su Facebook e sugli altri social; a pubblicare dei post che mettono in piazza la propria vita.

Paradosso della nostra epoca: provare vergogna per situazioni di cui non siamo responsabili anziché per i guai che discendono direttamente dai nostri errori.
Non si vergogna l’evasore fiscale pur consapevole di sottrarre preziose risorse alla collettività.

Non si vergogna il corruttore di politici sicuro che così funzionano le cose.

Non si vergognano gli amministratori locali di Lodi, imperterriti nel dichiarare che la legge è uguale per tutti, anche se si sa che “quel” regolamento è stato pensato proprio per mettere in difficoltà le famiglie straniere.

Per restare umani è necessario saper provare quella vergogna definita dal dizionario etimologico “perturbazione penosa”: per la morte di Stefano Cucchi, trattato con una disumanità indegna di un paese civile; per il sindaco di Riace, Mimì Lucano, cacciato dal proprio paese come un indesiderato delinquente; per chi chiama spregiativamente “negro” un altro essere umano; per ogni giovane che, nonostante gli anni sui banchi di scuola, si unisce ad altri per festeggiare il compleanno di Hitler.

Per questo e per tanto altro dovremmo rivalutare il sentimento della vergogna: ci serve per restare umani.

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