Ascoltare le persone (stavo per scrivere “la gente”) è un esercizio utile e istruttivo quando non necessario. Soprattutto quando gli altri parlano tra di loro, incuranti del tuo eventuale giudizio.
La pratica dell’ascolto, che consiglio vivamente, mi riesce possibile quando uso i mezzi pubblici e mi impongo di dimenticare di avere in borsa o in tasca uno smartphone.
Conversazioni interessanti, carpite quando le persone parlano gridando al proprio interlocutore oppure, comunicando al cellulare, costringono i vicini a sentire loro malgrado.
In bus all’andata
Una ragazza parla al cellulare; dal mio posto non la vedo ma la sento. Sta raccontando all’intercultore che il giorno precedente si era dovuta arrabbiare “tantissimo” con la madre. Rientrata a casa l’aveva trovata occupata nel cambio degli armadi.
La madre aveva riposto negli scatoloni anche due capi che la figlia stava ancora utilizzando grazie al persistente bel tempo. Lei, la figlia, aveva pesantemente “sgridato” (il termine è una mia traduzione) la madre per non averle chiesto il permesso di farlo.
Strada facendo la conversazione si arricchisce di parolacce e di interiezioni di uso comune tra i giovani e non solo, ma ciò che mi colpisce è il crescendo di rabbia che anima la telefonata.
Strappato lo scatolone dalle mani della madre che non voleva saperne di riaprirlo, i due capi incriminati erano tornati alla giovane. La madre per rivalsa le aveva sequestrato il cellulare.
Segue il racconto di urla e minacce, deduco reciproche, in un crescendo di pathos.
Per riavere il cellulare la ragazza aveva afferrato un cassetto dall’armadio del fratello e ne aveva rovesciato il contenuto.
Il cellulare viene prontamente restituito alla proprietaria. Che ora, scendendo dal bus, mi si rivela ragazzina dal faccino dolce e dall’espressione innocua.
Chiusa la telefonata, non vedo traccia della rabbia di poco prima.
Con la signora seduta accanto a me avviene uno scambio di sguardi interrogativi ma senza commenti espliciti.
In bus al ritorno
Due donne di età diversa parlano tra loro. La prima, la più giovane, dichiara che Salvini fa bene, meno male che c’è. L’altra annuisce.
Nel fiume in piena scorrono numerosi luoghi comuni: e basta con questi (gli stranieri) che vengono mantenuti dalle nostre tasse; che non pagano i servizi; che fanno i furbi e ci portano via quel poco che ancora abbiamo. Anni fa forse ce lo potevamo permettere: adesso no.
Non hanno i soldi? Allora facciano come noi, che abbiamo un figlio solo e fatichiamo ad allevarlo. Se loro ne vogliono fare quattro, se li mantengano.
Non è che tutti gli stranieri sono dei parassiti. Tra di loro c’è un… diciamo 10%? di brave persone, ma gli altri no, tutti a casa.
Sul mio viso si deve essere dipinta una particolare espressione di disappunto. Le due si allontanano e continuano lo scambio di idee più in là e a voce più bassa.
Procede, sempre a opera della più giovane, l’elenco delle malefatte di quel 90% di stranieri “cattivi”.
L’altra annuisce ma con un certo imbarazzo. Può essere che non condivida tutto?
Tornando a casa pensavo che di questi tempi sarebbe meglio non usare i mezzi pubblici, non entrare in un bar, non sostare troppo a lungo nella fila davanti a uno sportello.
Perché soffro nell’assistere al dilagare di tanta rabbia, di inspiegabile rancore, di rivendicazioni senza fondamento.
Mi piacerebbe sentire parole di tolleranza nei confronti dell’altro, qualunque altro.
Continuo a desiderare di vivere in un mondo di persone disponibili e solidali.
Mi resta il timore che le tre erre: rabbia, rancore, rivendicazione stiano alimentando un’escalation di odio sempre più difficile da controllare.
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