Andare a Capo Nord, per un giovane d’oggi, è un progetto non molto difficile da realizzare, ma negli anni Cinquanta solo desiderarlo, per di più in moto, partendo da un piccolo paese rivierasco dell’Abruzzo, era davvero un sogno, che spesso rimaneva chiuso nel cassetto. Da tempo mio fratello Remo, purtroppo oggi prematuramente scomparso, ed io accarezzavamo questo sogno, ma mancavano i soldi e la moto. L’opportunità favorevole per realizzarlo si presentò allorché il papà di un nostro compagno, che aveva una falegnameria, cominciò a produrre cassette per l’esportazione dell’uva Regina in Germania ed aveva bisogno di manodopera stagionale. Così, dopo aver sostenuto i nostri esami all’università, ci presentammo, insieme ad alcuni compagni, in falegnameria per farci assumere.
Al papà del nostro amico non sembrava vero poter avere manodopera a basso costo: per ogni cassetta prodotta ricevevamo 5 lire; si trattava di assemblare dei listelli di legno di pioppo con 68 chiodi, che noi mettevamo in bocca, per lavorare più in fretta.
Dall’alba al tramonto, lavorando sodo, si riusciva a produrne al massimo 140, così potevamo raggranellare 700 lire giornaliere: una sommetta nient’affatto disprezzabile per quei tempi.
Nostra madre, il papà era morto da un anno, venuta a sapere della nostra intenzione di viaggiare in Europa e per di più in moto, ci fece capire in tutti i modi che non era proprio entusiasta di questa nostra idea. Voleva anche che lasciassimo il lavoro perché temeva che trascurassimo gli studi;ed aggiunse che se proprio avevamo deciso di partire, ci avrebbero dato lei i soldi per le vacanze. Mio fratello, che era maggiore di me, cercò di rassicurarla e così non ne parlammo più.
A giugno avevamo messo da parte un po’ di soldi, ma non avevamo purtroppo ancora la moto per partire. Si presentò allora una di quelle occasioni che non sempre si verificano, né si ripetono tanto spesso. Un nostro amico, figlio unico di una collega di mia madre, era riuscito a convincere i propri genitori a farsi comprare una Lambretta 150cc.; però siccome era un guidatore poco esperto e poco accorto, aveva collezionato nel giro di qualche mese diversi incidenti, per fortuna non gravi, ma la cosa aveva gettato i genitori nell’ansia più nera. Così dissi a mio fratello: “E se chiedessimo al papà del nostro amico di prestarci la moto, che ne dici?” Mio fratello rispose: “proviamo”.
Il padre, persona affabile e disponibile, appena formulammo la richiesta, non se la fece ripetere due volte.“Ma che bella idea,” – disse – “un viaggio di tre mesi in Lambretta, certo, certo ve la daremo”.
Capimmo subito che l’idea di togliere la moto al figlio per tre mesi, lo ripagasse, in parte dell’incauto e pericoloso regalo fattogli. Senza problemi ci affidò lo scooter.
Il mio ex professore di educazione fisica ci prestò l’unico casco che c’era in giro per quei tempi in paese; e così cominciarono i preparativi per la partenza di quello che poi si è rivelato un meraviglioso viaggio ricco di tante avventure ed intense ed irrepetibili emozioni.
La nostra conoscenza delle lingue straniere più diffuse non era del tutto insufficiente. A scuola avevamo studiato solo il francese, lingua che però io continuavo a studiare all’università; un po’ d’inglese l’avevamo appreso cantando e suonando con la chitarra canzoni americane, allora in voga.
Su una vecchia grammatica, con sopra stampata ancora la svastica nazista, avevamo studiato insieme un po’ di tedesco; mentre mio fratello, da autodidatta, aveva imparato abbastanza bene l’esperanto.
E venne il fatidico giorno della partenza. Salutammo fratelli, amici, la mamma piangente e piena di raccomandazioni e ci avviammo verso il nord. Facemmo tutta una tirata sino a Milano e ci fermammo a dormire dal nostro fratello maggiore Armando, giornalista. Il giorno dopo partimmo per la Svizzera. La Lambretta arrancava faticosamente sui tornanti della strada vecchia del passo del S. Gottardo. Quello stesso passo che aveva consentito a Goethe, Schopenhauer e Nietzsche e a tanti altri illustri personaggi di recarsi in carrozza Italia. Faceva freddo sul passo e a tratti nevicava e le nostre giacche a vento non ci proteggevano abbastanza. Il motore si riscaldava continuamente così eravamo costretti di tanto in tanto a fermarci per farlo raffreddare. Avevamo una bottiglia di “Vecchia Romagna,” e a turno sorseggiavamo un po’ di cognac per riscaldarci.
Finalmente superammo il passo e ci avviammo giù verso valle, un po’ sbronzi; arrivati a Göschenen ci fermammo stanchi e abbastanza infreddoliti a dormire in un albergo della gioventù.
L’indomani, dopo una ricca colazione, riprendemmo il cammino verso la Germania. Ci fermammo a Costanza, sul lago di Costanza, e parcheggiammo la moto sul lungolago: dovevamo acquistare i sacchi a pelo e i materassini gonfiabili per dormire in tenda. E qui avemmo il primo impatto, e non l’unico con la Germania, non proprio gradevole, che è rimasto scolpito in modo indelebile nella mia mente. Avevamo comprato tutto il materiale occorrente per dormire in tenda e cucinare e ci accingevamo a tornare verso lo scooter parcheggiato molto in là; quando mio fratello mi disse: “Romolo, guarda quelle due belle ragazze bionde dietro di noi, da un po’ ci seguono e stanno facendo di tutto per farsi notare.” Allora, io di rimando: “Ma non vedi quanta roba portiamo con noi, dove andiamo, con questi sacchi a pelo e materassini e pentole in mano? Lasciale stare, la Germania è piena di belle ragazze e poi siamo ancora all’inizio del viaggio…” “Ecco, lo sapevo,” mi rispose – “quando ho voglia io, tu non hai mai voglia.” Mi girai verso le ragazze ed effettivamente aveva ragione lui: erano molto carine ed eleganti; si capiva che erano probabilmente delle studentesse di buona famiglia. Allora rivolsi loro un saluto con la mano e feci appello a tutta la mia riserva di sorrisi per fare colpo. Vidi che aveva funzionato perché risposero sorridendo in modo affettuoso.
Ci superarono e si avviarono davanti a noi voltandosi continuamente in dietro quasi a vedere se stessimo seguendole e lanciandoci sorrisi. Mentre stavamo per raggiungerle, si infilarono dentro una chiesa. Si può immaginare la nostra delusione. Allora rivolto a mio fratello: “Te l’avevo detto di lasciar perdere…”.
Comunque vista la sua ostinazione entrammo anche noi in chiesa e ci sedemmo dietro di loro. Cercai di attaccare bottone, chiedendo ripetutamente quale lingue parlassero; ma avevano un atteggiamento molto serio e compunto e non rispondevano alle mie impertinenze. Allora mi posizionai vicino all’acquasantiera, in attesa che passassero, non mi andava proprio di essere preso in giro. Finalmente si alzarono e si avviarono verso l’uscita. Abbordai subito la prima delle due e, afferrandole la mano, le chiesi in inglese, mentre stavamo uscendo: “Come ti chiami, come stai?”.
E finalmente la ragazza rispose: “Ursula.” Accadde che quella che piaceva a me scegliesse subito mio fratello; ed io un po’ contrariato glielo dissi: “vabbé, è lo stesso”- mi rispose – “non ti preoccupare, tanto rimane tutto in famiglia!”.
Eravamo al settimo cielo: noi, quadruplici provinciali italiani, avevamo abbordato e conquistato le prime due stupende ragazze della bella Costanza, ricca di storia e di monumenti! Camminavamo, in un bel viale alberato, verso un fresco boschetto, tra carezze ed effusioni varie, dicendo di tanto in tanto delle dolci parole in inglese, rubate dalle canzoni di Frank Sinatra e L. Armstrong . Sembrava andare tutto per il meglio, e noi ci sentivamo al settimo cielo, quando la ragazza che mi teneva abbracciato mi chiese: “Da quale parte degli USA, vieni?” Ed io un po’ sorpreso, risposi: “Noi non siamo americani, siamo italiani!” Se avessi detto che eravamo degli appestati avrei ottenuto un effetto migliore. Si scostò immediatamente da me e tutta agitata e sconvolta, rivolta alla sua amica, che era alcuni metri indietro, ancora stretta a mio fratello, esclamò nella sua lingua: “Susanne, non sono americani, sono due italiani, via!” Allora io che non capivo il perché di questo brusco mutamento, riavutomi dal colpo cercai di riprendere in mano la situazione: “Ma guarda” – mostrando il tesserino universitario – “siamo studenti universitari seri, prendiamo bei voti; siamo ragazzi bravi…mio padre è un maresciallo dei carabinieri … polizia; mia madre è una brava maestra, bambini ecc”. Niente da fare. “L’università… il professore aspetta… dobbiamo andare”; e si allontanarono. Allora, feci un ultimo e disperato tentativo di trattenerla, prendendola per un braccio e parlandole dolcemente, ma tutto fu vano; e in fretta si allontanarono da noi.
Poi rivolto a mio fratello: “Te l’avevo detto di lasciar perdere ed ora per arrivare alla Lambretta dobbiamo fare un chilometro in più di strada!”. Mentre camminavamo stanchi e un po’ depressi, mi resi subito conto, uscendo dall’Italia, che poi gli italiani non erano così amati all’estero, come una certa retorica aveva per tanto tempo alimentato. Del resto lo stesso mito dell’ ‘Italian lover’ era stato spazzato via in un attimo da quelle due ragazze tedesche.
Cercai anche di capire perché ci avevano scambiato per americani e la spiegazione la trovai subito nel nostro abbigliamento anticonformista per quegli anni: jeans dei soldati americani usati e scoloriti e comprati di seconda mano al mercato di Forcella a Napoli, camicie jeans azzurre, giubbotti jeans, mocassini indiani, carnagione chiara, capelli biondi io e castani mio fratello: nulla faceva presagire che fossimo due italiani. Eppure non riuscivo a comprendere la loro ostilità nei confronti degli italiani, la ragione la compresi appieno andando verso il nord industriale della Germania e precisamente a Wuppertal. Erano ormai finiti i soldi e così cominciammo ad andare a lavorare nei cantieri edili. Allora negli anni Cinquanta la Germania, in pieno boom economico, era un cantiere aperto e pullulava di Gastarbeiter, di lavoratori ospiti, come chiamavano i tedeschi gli immigrati italiani, spagnoli, portoghesi, turchi ecc., che lavoravano in Germania. Era molto facile trovare lavoro; ci presentavamo nei cantieri, a noi si era unito uno studente greco, dicendo al capomastro che avevamo bisogno di lavorare e in breve tempo venivamo assunti regolarmente ed assicurati. Il lavoro non era pesante, dovevamo togliere i chiodi dalle tavole delle impalcature.
Ci pagavamo molto bene, ed anche anticipatamente, se ne avevamo bisogno; si dormiva con i sacchi a pelo nella baracca dell’ingegnere. Nei giorni di lavoro accadeva spesso di essere presi in giro dagli altri lavoratori: “Italiani, spaghetti, insalata prego signori, mandolini, mafia; italiano: trickko und trackko in baracco! ecc.” il solito, ameno e volgare repertorio antitaliano, ma ormai ci avevamo fatto i calli e rispondevamo per le rime. Spesso mi divertivo a prenderli in giro, dicendo loro che ora oltre agli spaghetti si mangiava in Italia anche una “Rattensuppe”, un marco a piatto.” Qualcuno incredulo: mi chiedeva: “E’ vero?” Rispondevo: “Certo, chiedilo a mio fratello”.
Evitare le risse e non rispondere alle numerose provocazioni, nei locali e nei cantieri erano alcune delle nostre quotidiane preoccupazioni. Il lavoro terminava alle 17.00 e ogni tanto facevamo una spaghettata. Il venerdì sera spesso si usciva, come del resto facevano un po’ tutti, a bere nelle birrerie, il sabato era festivo. Un venerdì avevamo abbordato un bel paio di ragazze in una birreria e stavamo bevendo, scherzando e ridendo in compagnia, quando all’improvviso la polizia fece irruzione nel locale e cominciò ad afferrare molti degli uomini che erano seduti o in piedi al banco.
Vennero anche al nostro tavolo e due corpulenti poliziotti afferrarono mio fratello per le braccia e lo ficcarono a forza dentro una camionetta. Io non capivo che cosa stesse succedendo, né che cosa avesse potuto fare di male mio fratello per essere arrestato. Eravamo rimasti in pochi uomini nel bar e così, riavutomi dalla sorpresa, corsi verso la macchina della polizia e dissi in tedesco al poliziotto che era alla guida: “Ehi, guarda, che questo è mio fratello!” E lui di rimando: “Ah!, anche tu sei italiano?” e stava per afferrarmi e tirami nella camionetta; allora mostrai il tesserino dell’Università e dissi: “Noi siamo studenti universitari!” Se avessi detto sono il capo della polizia non avrei ottenuto un effetto migliore. Si scusò subito e poi rivolto a mio fratello gli fece cenno di uscire dalla macchina. Non riuscivo ancora a capire perché avessero preso mio fratello e non anche me.
Lo capimmo il lunedì successivo in cantiere, parlando con il capomastro. Il giorno prima un italiano clandestino aveva violentato una ragazza tedesca e accoltellato il suo fidanzato, riducendolo in fin di vita. La polizia, in possesso di un identikit, aveva fatto delle retate in tutti i locali pubblici frequentati da stranieri con capelli neri, alla ricerca del colpevole. Mio fratello rientrava in quella categoria; io invece di carnagione chiara e con i capelli biondi, ero stato scambiato per un tedesco. La Germania, negli anni ’50, era stata invasa da un’orda di immigrati italiani e non tutti erano, come la stragrande maggioranza di loro, della brava e laboriosa gente, ma spesso soggetti rozzi e primitivi, violenti e privi di scrupoli. Questo episodio, insieme all’altro di Costanza, mi torna in mente ogni volta che sento i connazionali applaudire mentre la polizia compie retate di rumeni, albanesi, africani, rom ecc., che si sono macchiati di qualche crimine nella nostra Italia, paese una volta di emigrazione ed oggi d’immigrazione. Purtroppo però molti dimenticano che anche noi eravamo in Germania dei “magliari” e non solo. In giro, per gran parte dei continenti, gli italiani sono stati gli antesignani degli attuali “Vu’ comprà”?
Nella foto: La Lambretta con bagagli, casco e corna di renna, fotografata in Via Moscova, n. 27, al ritorno da Capo Nord, a Milano, nel cortile dell’abitazione di mio fratello Armando
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