Quando Bersani parlava della Ditta sentivo dentro una ribellione culturale. Eppure l’idea di uscire dal Pd non mi passava nemmeno dall’anticamera del cervello, anzi lo sostenevo per le cose buone che proponeva e faceva.
Al momento dell’inaspettato “pareggio” del 2013, dopo che tutti si erano interrogati solo sull’ampiezza della vittoria del Pd, invece che colpevolizzare Bersani ho cercato di capire i motivi dell’insuccesso collegandoli anche alle difficoltà politiche e culturali dei riformisti europei che si sarebbero poi allargate e irrobustite.
Nel corso di questi anni non ho mai avallato la tesi della “fusione a freddo” fra partiti troppo diversi, sostenuta tra i primi da Cacciari, semplicemente perché non ritengo che questo sia il problema del Pd. Il nuovo partito era stato infatti largamente sperimentato con l’Ulivo sia a livello nazionale che territoriale e i tempi della nuova avventura erano maturi tant’è vero che già al primo congresso gli elettorati si erano mischiati.
Non so cosa accadrà in futuro ma penso che non vedremo mai un ritorno dei militanti e degli elettori alle vecchie origini. Semmai ritengo che un partito così complesso abbia bisogno di diverse articolazioni di pensiero ma non certo di cordate legate ai personaggi più rilevanti. Per questa ragione anche l’accademica e irrealistica ipotesi di un solo candidato alla leadership mi mette l’orticaria.
Sono passati dieci anni dalla fondazione del Pd e sembra un secolo in un mondo dove tutto cambia a grandissima velocità. Oggi è il tempo di una completa revisione politico-culturale e statutaria-organizzativa. Tutto ciò richiede che si offrano al congresso e alle successive primarie piattaforme chiare su cui iscritti ed elettori possano esprimersi e votare prima di sostenere il leader vincente.
Sul piano politico, merita priorità il ripensamento dell’Unione Europea con il conferimento all’Europa di poteri fiscali e di nuove competenze in materia di immigrazione; di difesa, sicurezza e affari esteri; di politica economica. In Italia si sentono sempre più voci confusamente anticapitaliste ma Il capitalismo è la forma di tutte le liberal democrazie del continente. Sarebbe invece necessario porre forti regole al liberismo economico con norme credibili su conflitti d’interesse, concorrenza, anti-trust, ma questo si può fare solo in Europa, non in un piccolo Stato.
Se il fine ultimo di una forza di centrosinistra è quello di una maggiore giustizia sociale bisogna allargare la torta da suddividere avendo fiducia nello sviluppo economico, negli investimenti produttivi, nell’infrastrutturazione innovativa creando lavoro di qualità oltre che di massa. Delle politiche assistenziali non si può fare a meno ma sono il corollario non l’obiettivo dell’azione politica.
Andrebbe ripreso anche il discorso sulla riforma della Costituzione, almeno a segmenti, ma con un disegno complessivo che porti all’efficienza delle Istituzioni, alla semplificazione dell’amministrazione e alla riduzione dei politici di professione.
Lo Statuto del Pd va quasi completamente rivisto. Via tutta l’impostazione che ruotava intorno alla “vocazione maggioritaria”. Da tutelare le primarie per il leader nazionale e per le cariche di sindaco e di presidente di Regione non certo per il segretario regionale almeno fino a quando i partiti regionali continueranno ad essere ridotti a semplice coordinamento organizzativo come sono oggi.
Infine un chiarimento sulla leadership. Non esiste un partito di successo che non abbia un leader forte, indispensabile per la coesione e l’efficacia politica. Certo il leader dovrebbe essere il primo a porsi il problema dell’unità del partito ma parlare di leadership collettiva è oggettivamente risibile.
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