Ma voi, ve li ricordate i «Boat People»? Questa espressione iniziò a diffondersi anche alle nostre latitudini a partire dalla metà degli anni Settanta. Oggi, per definire qualcosa di analogo, usiamo espressioni come «carrette del mare», «barconi», «gommoni». Il contenuto – è il caso di dire – non cambia. I «Boat People», come i «barconi» o le «carrette del mare» dei nostri giorni, erano imbarcazioni di fortuna che trasportavano carichi di miseria umana in fuga da una terra devastata dalla guerra.
Finita la guerra del Vietnam, nel momento in cui Saigon, capitale del Vietnam del Sud, fu occupata dalle forze nord-vietnamite, il mondo assistette ad un vero e proprio esodo. Oggi alcuni parlano di «diaspora vietnamita». «Diaspora», mi permetto di ricordare, è un termine che evoca la dispersione forzata di un popolo, costretto ad abbandonare la propria terra d’origine. Nel luglio del 1979 si tenne a Ginevra la conferenza dell’Alto commissariato dell’Onu per i profughi, nel corso della quale i cinquanta Stati partecipanti furono informati che, a partire dal 1975, circa un milione di persone era fuggito dal Vietnam, dal Laos, dalla Cambogia. Poiché coloro i quali avevano cercato una via di salvezza passando per la Cambogia avevano dovuto fare i conti con i khmer rossi, la maggior parte dei profughi si affidò al mare.
Anche a quel tempo, a fronte dell’emergere di un bisogno crescente, immediato e mosso dalla disperazione, subito si manifestò chi promise di soddisfare quel bisogno. L’Alto commissariato dell’Onu per i profughi denunciò che le persone consegnavano tutto ciò che possedevano a chi prometteva di organizzare il loro approdo in una mitica terra della pace e della libertà. Il risultato fu la scomparsa in mare (cioè: la morte per annegamento) di circa 200mila persona in fuga dal solo Vietnam.
Di fronte a questa massa enorme di persone, che cercava di approdare sulle terre più vicine (Malaysia, Thailandia, Indonesia, Hong Kong), il Golfo del Siam fu immediatamente presidiato da navi e aerei, che cercarono di bloccare il “contrabbando” di profughi. Anche annunciando di voler sparare sui «Boat People». L’agenzia dell’Onu ricordò agli Stati convenuti a Ginevra che ogni giorno di ritardo nell’organizzare operazioni di soccorso comportava la morte di almeno mille profughi. Ovviamente la gente continuò a morire in mare e nessuna esibizione muscolare in nome della difesa dei sacri confini riuscì a fermare il movimento migratorio. I «Boat People» continuarono ad attraversare il mare per tutto il decennio, ritornando in scena ancora negli anni Ottanta e Novanta.
Come si vede, nulla di molto diverso da quanto accade nel Mediterraneo ai nostri giorni.
Del «popolo delle barche» si parlò molto anche in Italia.
Il 5 luglio del 1979, gli incrociatori «Andrea Doria» e «Vittorio Veneto», con la nave rifornitrice «Stromboli», partirono dal porto di Taranto e, senza fare alcuno scalo, raggiunsero in 16 giorni di navigazione il Mar Cinese Meridionale, facendo base a Singapore. Scopo della missione (la prima missione della Protezione civile italiana all’estero) era quello di portare aiuti a quanti si abbandonavano al mare con imbarcazioni di fortuna. Nel corso dei 45 giorni di missione, furono esplorate 75.000 miglia quadrate e furono imbarcati 907 profughi. Mentre le navi della nostra Marina militare erano impegnate in Estremo Oriente, in Italia venivano predisposte le strutture di accoglienza per i rifugiati, che prevedevano, oltre all’assistenza primaria, anche corsi di lingua italiana e il loro rapido inserimento lavorativo. Giulio Andreotti, allora Capo del governo, delegò l’onorevole Giuseppe Zamberletti, Sottosegretario agli Affari esteri, a coordinare le operazioni.
Terminate le operazioni, conclusesi con il raggiungimento del numero massimo di persone che si potevano imbarcare, le navi fecero rotta verso casa. Raggiunsero il bacino di San Marco, a Venezia, il 20 agosto. Al loro arrivo, in molti diedero il benvenuto ai profughi sventolando «fazzoletti e bandiere».
Era l’epoca in cui lo Stato italiano “apriva” i suoi porti.
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