Si è autodefinito “l’avvocato degli italiani”. Qualcun altro ha preferito descriverlo in stile manzoniano “un vaso di cocci tra due vasi di ferro”. Un altro “il conte fantasma”. È Giuseppe Conte, il nostro Presidente del Consiglio, ormai in carica da quasi quattro mesi, anche lui “non eletto dal popolo” secondo una terminologia tanto disprezzata un tempo dai partiti che ora lo sostengono.
Che cosa possiamo dire del suo governo? Anzitutto che anche questo esecutivo, sulla scia dei governi Berlusconi e Renzi, non ha un quadro completo di riferimento su cui le forze di maggioranza convergano. No, il “contratto” – come se per governare bastasse un accordo tra due parti e non un programma da sottoporre al Parlamento per riceverne la fiducia! – prevede la spartizione delle sfere di influenza tra le due forze che appoggiano il governo, altalenanti tra il tornaconto dell’uno e il vantaggio dell’altro, tra ciò che sta a cuore e piace a me e quello che è simpatico e utile a te. Così facendo si favorisce la morte della Politica intesa come insieme di ragioni per cui vale la pena d’impegnarsi tutti assieme per togliere gli ostacoli che rendano una società più democratica, più giusta, più concorde.
Il Presidente del Consiglio ha l’obbligo morale di battersi secondo progetti e priorità concordate che sappiano coniugare la loro attuazione con gli impegni derivanti dalla congruità e dalle risorse economiche a disposizione, nonchè dai vincoli derivanti dai trattati internazionali. È quello che manca a Giuseppe Conte, che nasconde di non saper regolare e temperare i conflitti, tanto più in questo momento in cui è più che mai necessaria una politica sociale verso le classi più povere gestita da politici onesti e accorti e non da coloro che trasformano le preoccupazioni sociali (la paura per i migranti, la rabbia per la mancanza di lavoro, l’ansia per pagare tasse troppo esose…) in passioni così travolgenti al punto tale da ritenersi al di sopra del diritto.
Questo è il primo appunto che dirigiamo al Presidente Conte. Quando lui afferma che “non aspetteremo i tempi della giustizia” o “revocherò la concessione” dichiara di voler saltare alle conclusioni, prima ancor di aver seguito la procedura. L’avvocato, il giurista, il professore di diritto privato non può misconoscere la separazione dei poteri così come io l’ho imparato alle scuole medie. Quando permette al suo ministro Salvini di applicare il “respingimento” viola una norma internazionale. Quando permette a Toninelli di dire: “Chi non è stato pagato da Berlusconi, alzi la mano!” o di dichiarare davanti alla tragedia del ponte crollato di Genova: ”Ecco dove sono andati a finire i nostri pedaggi!” si rende corresponsabile col suo ministro nell’affermare che l’accusato sia un delinquente, ma che spetta agli altri a dimostrarlo. Quando permette di presentare una mozione parlamentare in cui sostiene, in aperta e palese violazione di legge, che il Consiglio d’Amministrazione della RAI può procedere alla nomina del presidente “senza alcuna limitazione” si pone, come il deputato che l’ha presentata, al di sopra e contro la legge. Quando nel silenzio del premier e del ministro della Giustizia, l’indagato Salvini protesta “Io sono eletto dal popolo, i giudici no!” permette di contrapporre la funzione indipendente della magistratura a quella di un ministro che non è al di sopra della legge. Quando Conte non censura pubblicamente il suo portavoce, Casalino, che in una conversazione telefonica minaccia l’epurazione dei valenti alti funzionari dello Stato accusati di “remare contro” il governo perché applicano le norme in vigore, il Presidente Conte non contribuisce a far crescere un clima di rispetto per le istituzioni.
Al contrario, il compito elevato del Presidente del Consiglio è proprio quello di persuadere con la sua autorevolezza i suoi ministri a trovare compromessi, mediando tra esigenze opposte, tra coloro che vogliono imporre i propri interessi particolari con chi lancia accuse di sabotaggio agli alti dirigenti delle istituzioni “colpevoli” di eseguire le leggi e non di soddisfare i piaceri dei loro ministri. Non può un Presidente del Consiglio permettere ai due suoi vice di affascinare e sedurre assai più che a proporre idee per il futuro del Paese. Farebbe bene il Presidente Conte a non far applicare dal suo ministro degli interni il “principio della volgarizzazione” che il nazista Joseph Goebbels così esponeva:” Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.” È questo il secondo appunto che indirizziamo al figurante di palazzo Chigi: la mancanza di una leadership!
Il terzo appunto che volgiamo al capo del governo giallo – verde è l’eccesso di semplificazione della complessità, l’attuazione di una politica localistica e anti – intellettuale. Non ci riferiamo tanto all’accorpamento della “cultura” con quello delle politiche agricole (forse, intendeva “coltura”!), al guazzabuglio storico che Conte dimostra di avere in testa, confondendo l’8 settembre 1943 col 25 aprile 1945, bensì alla retorica che porta al parossismo, all’isteria collettiva. Ciò che conta è l’annuncio roboante per strappare l’applauso degli astanti, l’ampollosità con cui qualche ministro si attribuisce meriti non suoi (“Entro il 2019 ridurremo le tasse al 15% a un milione di persone” – peccato che questa realtà sia già in vigore con la legge di bilancio 2015!) Di tutto ha bisogno il nostro Paese, tranne che spingere al massimo il conflitto con le istituzioni, tra il popolo e lo stato con scontri personalistici nei quali non manca il ricorso a dubbie strategie per accentuare ancor di più il distacco tra cittadini ed istituzioni. Così si mina lo Stato di diritto.
Il quarto appunto è relativo alla verità e alla forza dei fatti, che vengono smarriti, annunciati e, dopo la verifica, resi non attendibili e non credibili. Ci riferiamo ai fondi per le periferie già finanziati e tolti dal programma del nuovo governo, alla sarabanda creata dalle norme contradditorie sui vaccini, al ministro delle infrastrutture che proclama davanti al Parlamento di aver subito pressioni che non ha avuto, al ministro del Lavoro che, dopo aver annunciato di voler annullare la gara ILVA, l’ha sostanzialmente confermata, al ministro della Giustizia che al Senato nega di aver avuto rapporti d’affari con Lanzalone che si dimostrano, al contrario, veritieri.
Ma ciò che più preoccupa maggiormente è l’atteggiamento sprezzante nei confronti dei mercati, o del capitale finanziario o della speculazione finanziaria. Gettare titoli quotati in borsa alla mercè della speculazione, attraverso informazioni improvvisate e non controllate, ha fatto innalzare lo “spread” che finora ci è costato 34 miliardi di euro. Non parliamo, poi, della continua oscillazione sul rispetto delle norme sul bilancio, corretta solo dal Ministro Tria che tiene la barra dritta.
Il quinto appunto riguarda la nostra politica estera. Dal dopoguerra, l’Italia ha sviluppato la sua politica estera intorno a due pilastri: il partenariato transatlantico e il processo d’integrazione europea. La sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo, inoltre, esige per l’interesse vitale del nostro Paese, di avere rapporti multilaterali fondati su un sistema di regole condivise e di diritti riconosciuti e tutelati. Non possiamo dimenticare i travagli e le tragedie attraverso cui abbiamo conquistato la democrazia. Non possiamo dimenticare la nostra vocazione europeista. Non possiamo dimenticare la nostra apertura ai popoli che si affacciano al Mediterraneo. Esse sono tre condizioni per la nostra stabilità, prosperità e sicurezza.
L’ “America first” di Trump sembra avere seguaci in coloro che gridano “l’Italia e gli italiani prima di tutto”. Sappiano costoro che la popolarità di Trump sta tremendamente scendendo nei sondaggi, che anche i collaboratori del presidente americano fuggono dalla sua amministrazione, che quella parte del ceto sociale indigente e della classe media impoverita, di cui Trump aveva fomentato la rabbia per essere eletto, stanno accorgendosi di essere stati bindolati.
Il governo presieduto da Giuseppe Conte sembrerebbe (uso il condizionale perché ancora non sappiamo se sia lui a dare le indicazioni di fondo per la nostra politica estera e non il bravo Moavero Milanesi, a cui spetta dirigere la nostra diplomazia, o l’azione fortemente europeista del Presidente Mattarella!) sembrerebbe – dicevamo – lasciare troppo spazio anche in questo settore al ministro Salvini che incontra a Milano (in una sede istituzionale!) il presidente ungherese Orbàn a cui lo legano le insofferenze per le regole, per il multilateralismo, le proteste viscerali e le promesse messianiche, il rifiuto della politica, il disprezzo per la competenza, il sostanziale rigetto dell’obiettività.
La realtà del nostro Paese non consiste in ciò che ci dipingono Salvini, Di Maio e Conte, in quello che ci dicono, ma in quello che non ci rivelano, che non ci dicono. Vorremmo chiedere al Presidente Conte e ai suoi ministri di essere franchi e di fuggire dall’infingimento, di promettere poco e mantenere quello che hanno promesso.
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