Il debito pubblico dell’Italia è una volta e mezzo quello della Francia. Però il vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, Di Maio, non esita a equiparare i due Paesi. Dice: se Macron intende sforare il deficit ben oltre il due per cento, non si vede perché dovremmo essere da meno noi. Noi che siamo con al sedere pezze finanziarie ben più vistose delle sue. E poi, un dettaglio non proprio trascurabile: Macron spiega che accompagnerà il taglio della spesa pubblica con quello delle tasse. Di Maio -spalleggiato da Salvini- ha in mente invece di gonfiare la prima e non parla delle seconde. Resta fermo nel suo noto proposito: regalare soldi a chi, almeno ufficialmente, non ne ha, toglierli a chi se li è guadagnati con fatica, sudore, onestà. Idem a proposito dell’annunciata ghigliottina sulle pensioni: una quota di coloro che han sempre versato regolarmente il dovuto e rispettato leggi che prevedevano le modalità per la quiescenza, vedranno ridursi l’assegno mensile. Una macelleria sociale retrodatata, alla faccia della Costituzione.
Il punto è che servono soldi per la prima rata del reddito di cittadinanza, pur se risulterà improduttivo essendo una misura che non crea lavoro, ma regala assistenzialismo. Certo aiuterà momentaneamente alcune famiglie davvero in ambasce. Ma premierà molti, troppi furbi che in ambasce non sono e coglieranno l’insperata circostanza per avvantaggiarsi ancora di più sugli altri (dopo essersene profittati a lungo secondo il diffuso principio: tu paghi i servizi pubblici di cui io usufruisco gratis). Perché come priorità assoluta il governo gialloverde, anziché distribuire sussidi e regalare condoni, non ha messo nel suo contratto la guerra -una guerra vera- all’evasione fiscale? Avremmo la certezza che ai sacrifici cui sarà chiamata una parte considerevole degl’italiani corrisponderebbe il calo della mannaia su un’altra imponente parte: i frodatori dell’erario. Lo slogan che avremmo voluto sentire fin dall’inizio dell’avventura del cambiamento è: meno nero per tutti. Anzi, zero nero per tutti. Così sarebbero stati felici anche gli ultrà anti-immigrazione, guidati dal ministro degl’Interni. Non lo abbiamo sentito.
Perciò la “manovra del popolo” si prefigura come una spericolata conversione a U che porterà indietro, invece che avanti, il Paese. Fino a una possibile bancarotta, se a fronte di certe spese non se ne aboliranno altre: il Parlamento ha ancora il potere di correggere gl’incorreggibili. Delle nostre istituzioni, e della conseguente credibilità interna e internazionale, sembra peraltro importare nulla ai padroni del vapore. Basti pensare alle pesanti critiche verso i dirigenti del Mef, fatti segno di parole dal tono minaccioso, pur essendo solo colpevoli d’adempiere al loro dovere. Se per esempio il Ragioniere generale dello Stato “bollinasse” provvedimenti legislativi senza copertura, violerebbe la Costituzione (che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio) e ne dovrebbe rispondere al presidente della Repubblica.
Visto l’imperversare di demagoghi e dilettanti, da tempo gl’investitori internazionali stanno provvedendo a ritirare i capitali dall’Italia, liberandosi di titoli di Stato dal futuro a rischio. Lo sciagurato trend innescato da irresponsabili dichiarazioni (Draghi dixit) ha già causato gravi danni. Seguita a causarne di peggiori in virtù di un Def che -nonostante la contrarietà del ministro Tria, messo al muro da Salvini/Di Maio e non ritiratosi solo per l’intervento di Mattarella- prevede il devastante sforamento del deficit. Il prossimo crash-test sarà nel mese venturo, quando le agenzie di rating Moody’s e Standard&Poors esprimeranno i loro giudizi sulla situazione italiana. Prepariamo l’ombrello, sempre che sia possibile trovarlo: ne consigliano l’uso la speculazione finanziaria e il declassamento del debito sotto il livello di “spazzatura”.
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