Nelle pagine iniziali di La democrazia del narcisismo, Giovanni Orsina racconta come già Alexis de Tocqueville avesse individuato nella promessa di autorealizzazione offerta ad ogni individuo dalla democrazia la contraddizione che l’avrebbe messa in crisi.
La questione è: da un lato la democrazia promette ad ogni individuo il pieno controllo della propria esistenza; dall’altro, essa funziona solo se questo diritto è temperato. Tale compito è assolto dall’etica, dalla legge e dalla religione.
Ne segue che le scelte politiche sono orientate da come gli individui percepiscono l’opposizione tra desiderio individuale e bene comune.
Se questi avvertono che la realizzazione di sé è compromessa da una autorità superiore, la promessa di restituire al soggetto il potere ceduto ad un disegno sopra-individuale è vincente; viceversa, la distruzione del tessuto sociale causata dalla liceità dei soprusi individuali o tribali spingerà a trovare antidoti, siano questi il sacro, la legge, o la tragedia come metafora dei dilemmi etici.
Da che parte stia oscillando oggi il pendolo è sotto gli occhi di tutti.
Il diritto di ciascuno alla determinazione della propria vita si è fatto concreto in una sarabanda di privilegi particolari, urgenze, ragioni e giudizi individuali alla ricerca di riconoscimento, rassicurazione e conferma, in nome della conservazione di “benessere, potenza e sicurezza” (Orsina).
La traduzione in volontà politica dell’atomizzazione degli intenti e del desiderio elevato a pretesa origina una retorica, pragmatica e persuasiva, che fa leva sul risentimento per la in-soddisfazione delle aspettative, scatenando un’aggressività altrimenti repressa.
Quindi, per calcolo politico, nasce una narrazione della realtà demagogica e truce, il cui obiettivo non è descrivere, spiegare o comprendere, ma eccitare.
Il falso è ininfluente sulla credibilità dell’argomentazione, la cui verità è data più dalla sua aderenza alle convinzioni del destinatario che non dalla coerenza logica del ragionamento. I legami con la realtà diventano elastici per adattare i fatti alla necessità del discorso.
La semplificazione della complessità, la superficialità banalizzante, l’irrisione in favore di platea hanno conquistato le folle, mettendo in minoranza la ragione. Le logiche del discorso non corrispondono più alla regola fondante del pensiero razionale: simbolicamente si collocano non nella testa, ma nel ventre.
Il disprezzo diventa una categoria della politica dove il concetto di pacchia (finita) ha preso il posto del principio di dignità (riconosciuta).
Azioni che mettono in pericolo la vita di malcapitati suscitano l’entusiasmo degli spalti del Colosseo sociale, dove le moltitudini sono chiamate a plaudire la prosecuzione della sofferenza dei reietti.
Una trasformazione lenta ma continua ha spostato il campo di approvazione delle decisioni politiche dai luoghi deputati al confronto dei rappresentanti del popolo, dove la forma è garanzia di equità di metodo, alla pervasiva dimensione dei network sociali, dove l’espressione dell’orientamento individuale, senza mediazioni e costrizioni, si manifesta attraverso l’urlo a costo zero e l’insulto impunito.
La democrazia, per come ne conosciamo i principi, non ne esce bene.
Un pezzo intitolato: Gli americani non praticano più la democrazia, pubblicato da The Atlantic apre in questo modo:
La democrazia è un atto del tutto innaturale. Nessun essere umano è naturalmente dotato di un istinto democratico; non siamo nati desiderando di mettere da parte i nostri desideri individuali in favore di quelli della maggioranza. La democrazia è, invece, una pratica acquisita.
La democrazia non convive con l’ignoranza. Una parte, minoritaria ma non trascurabile, del mondo occidentale non l’ha disimparata.
Potrebbe averlo fatto per calcolo, una sorta di assicurazione contro “l’oggi a te, domani a me”, o seguendo un imperativo morale, o perché crede che la democrazia abbia un fondamento morale, ovvero sia il miglior modo possibile di governo della società umana.
Qualunque sia la ragione, sta di fatto che questa “bolla” è legata a forme di pensiero e prassi politiche, a sistemi di valori, oggi non prevalenti.
Pur nella loro pluralità di origine e peculiarità di orientamento teorico, tutte queste logiche e prassi mantengono un legame coerente non solo con la modernità e il progressismo, la scienza e il suo metodo, ma soprattutto con l’etica normativa sviluppata a partire dall’idea che l’egoismo sia deprecabile e l’altruismo benefico, postulando che il bene comune esista, sia approssimabile e, anche fosse un “dover essere”, è di un ordine superiore all’illimitata autorealizzazione dell’individuo.
La questione è se lo sforzo per la diffusione nella società di un’etica che si basi su questi principi – e della messa in pratica della politica che ne conseguirebbe – sia un obiettivo tanto potente per unire in un unico disegno sistemi di pensiero che, per origine e natura, sono differenti quando non antagonisti.
Se la risposta fosse sì, quale è la via per elaborare un processo rifondativo delle basi della convivenza sociale e di una etica sociale alternativa al vaffa?
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